Crisi del dopoguerra e origini del Fascismo

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Crisi del dopoguerra e origini del fascismo

La crisi del dopoguerra

La Prima Guerra mondiale, nonostante la vittoria, creò in Italia una situazione di profonda crisi e di forti conflitti politici e sociali. I morti erano stati oltre 600000 e circa 450000 i feriti o mutilati.

L’Italia ottenne dai trattati di pace il Trentino, l’Alto Adige, l’Istria e le isole del Dodecanneso, ma non tutti i compensi previsti dal patto di Londra. La Dalmazia settentrionale, nel 1919, fu assegnata, contro la volontà dell’Italia, al nuovo regno serbo-croato-sloveno. La sua mancata annessione all’Italia fu una delle principali cause di insoddisfazione. Così, i nazionalisti iniziarono una violenta campagna contro il governo, accusandolo di essersi piegato alle decisioni di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. I socialisti, viceversa, misero sotto accusa la classe dirigente liberale e i nazionalisti per aver voluto la guerra.

Vittoria mutilata e impresa di Fiume

Inoltre, il poeta Gabriele D’Annunzio, che coniò la definizione di “vittoria mutilata”, termine che indicava il tradimento degli ideali risorgimentali e il sacrificio dei soldati caduti durante la Grande Guerra. D’Annunzio si pose a capo nel settembre del 1919 di un gruppo di «legionari», cui si unirono anche truppe regolari, per andare a conquistare la città di Fiume, il cui possesso era stato inutilmente rivendicato dalla delegazione italiana alle Conferenza di pace di Parigi.

Il 12 settembre 1919 i reparti di ex-militari volontari guidati da D’Annunzio occuparono la città, di cui fu proclamata l’annessione al Regno d’Italia.

Il 12 agosto 1920 D’Annunzio trasformò il territorio fiumano in Stato indipendente e proclamò la Reggenza Italiana del Carnaro, che promulgò la Carta del Carnaro, una costituzione ispirata a idee libertarie e socialiste, redatta dal poeta e dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris.

Il 12 novembre 1920 il governo italiano firmò il Trattato di Rapallo che definiva Fiume città libera e prevedeva la costituzione dello“Stato libero di Fiume”. D’Annunzio non riconobbe il Trattato, così il governo Giolitti in novembre fece intervenire l’esercito per sgomberare la città, che si arrese il 31 dicembre dopo duri scontri.

Il biennio rosso

Le agitazioni sociali

Il dopoguerra vide poi l’aggravarsi delle tensioni sociali. Nell’immediato dopoguerra si verificò un ingentissimo aumento del debito pubblico. Vi fu inoltre un forte peggioramento delle condizioni di vita delle classi popolari, che fu la causa immediata di una grande ondata di scioperi e di agitazioni, iniziata nella primavera del 1919, alla quale non rimase estranea nessuna categoria di lavoratori, sia nelle fabbriche sia nelle campagne. Gli operai chiedevano la riduzione della giornata lavorativa e l’aumento dei salari, falcidiati dall’inflazione. I contadini chiedevano che fossero mantenute le promesse fatte loro durante la guerra.

Gli scioperi nelle campagne, che coinvolsero nel 1919 centinaia di migliaia di lavoratori, miravano a ottenere il monopolio del collocamento e l’imponibile di manodopera, mentre mezzadri e salariati fissi cercarono di ottenere dalla proprietà terriera nuovi patti a loro più favorevoli. Inoltre si verificarono, soprattutto nel Lazio e nel Meridione, importanti lotte per l’occupazione delle terre incolte da parte di braccianti agricoli, coloni e contadini piccoli proprietari.

L’occupazione delle fabbriche

occupazioneIl momento culminante delle agitazioni operaie, tra l’agosto e il settembre 1920, fu l’occupazione delle fabbriche da parte degli operai metalmeccanici del triangolo industriale Torino-Milano-Genova. In molte fabbriche nacquero i consigli di fabbrica, che si ispiravano ai soviet russi e le rivendicazioni economiche sfociarono frequentemente in una direzione rivoluzionaria, con la parola d’ordine del “fare come in Russia”.

La situazione che si era creata sembrava preludere alla rivoluzione su modello sovietico, ma in Italia, a differenza della Russia, non vi era un partito organizzato e determinato come quello di Lenin. I socialisti massimalisti italiani erano rivoluzionari solo a parole e la minoranza che darà poi vita al Partito comunista troppo esigua e frammentata.

Giovanni Giolitti, tornato al governo nella primavera del 1920, evitò di ricorrere alle maniere forti e, con la collaborazione dei sindacati e del Partito socialista, ottenne il raggiungimento di un accordo tra operai e industriali (settembre 1920). Gli operai misero fine all’occupazione delle fabbriche e gli industriali concessero aumenti salariali e la riduzione dell’orario di lavoro.

Il quadro politico instabile e i nuovi partiti

Dopo la guerra il quadro politico italiano fu caratterizzato da una marcata instabilità. Alle elezioni del 1919 tenutesi con il nuovo sistema elettorale proporzionale i due partiti di massa, il Partito socialista e il Partito Popolare italiano, fondato nel gennaio dello stesso anno dal prete cattolico don Luigi Sturzo, ottennero oltre il 50 per cento dei voti.

Un’alleanza tra i due partiti non fu tuttavia possibile per il massimalismo e anticlericalismo dei socialisti e per il conservatorismo di una parte dei cattolici. Furono così i liberali a conservare le leve del potere, seppure in modo molto precario. Infatti si avvicendarono numerosi governi basati su maggioranze instabili, frutto di alchimie parlamentari: nel giro di pochi anni, dal 1919 al 1922, vi furono numerosi governi (Orlando, Nitti, Giolitti, Bonomi e Facta).

Il Partito socialista, diviso e oscillante tra riformismo e massimalismo, nonostante i crescenti consensi elettorali, si mostrò incapace di esprimere una linea politica chiara e coerente. La sua maggioranza massimalista agitò continuamente parole d’ordine rivoluzionarie, senza avere la capacità pratica di dar loro seguito.

Bordiga
Amadeo Bordiga
Gramsci
Antonio Gramsci
Bombacci
Nicola Bombacci

Nel gennaio 1921 al congresso del Partito socialista, tenutosi a Livorno, in seguito a una scissione, nacque il Partito comunista d’Italia,

con l’obiettivo di preparare una rivoluzione sul modello sovietico. Tra i fondatori del PCd’I vi erano Amadeo Bordiga, Antonio Gramsci, Nicola Bombacci, Bruno Fortichiari, Umberto Terracini e Onorato Damen. .


Le origini del fascismo

Nel 1919 l’ex dirigente socialista Benito Mussolini fondò il movimento fascista:

il 23 marzo, nella sala di un circolo milanese in piazza San Sepolcro furono fondati i Fasci italiani di combattimento.

Si trattò all’inizio di un movimento eterogeneo, che raggruppò diverse correnti di opposizione: la più numerosa era quella degli interventisti rivoluzionari (ex socialisti, sindacalisti, anarchici); un’altra era composta dagli ex combattenti e in particolare dagli “arditi”; una terza era rappresentata dagli intellettuali futuristi, guidati da Marinetti.

Il programma del movimento, che fu pubblicato in giugno del 1919, proponeva obiettivi eterogenei, comuni ad altri partiti: abolizione del Senato, pensione a 55 anni, giornata lavorativa di otto ore, abolizione dei Vescovati, affiancamento all’esercito di una milizia nazionale popolare, voto esteso alle donne, giornata lavorativa di otto ore, imposta progressiva sul capitale. Esso, tuttavia, era essenzialmente volto alla valorizzazione della vittoria sull’Austria Ungheria, alla rivendicazione dei diritti degli ex-combattenti, al “sabotaggio con ogni mezzo delle candidature dei neutralisti” e alla rivendicazione di una politica estera capace di “valorizzare la nazione italiana nel mondo”.

Dopo il primo congresso nazionale, tenutosi a Firenze nell’ottobre 1919, i Fasci di combattimento si presentarono alle elezioni politiche nella circoscrizione di Milano con una lista capeggiata da Mussolini e Marinetti ma raccolsero meno di 5000 voti e non ottennero alcun seggio.

Il ritorno di Giolitti al governo

Il 15 giugno 1920, dopo sei anni dalla caduta del suo ultimo ministero, tornò al governo Giovanni Giolitti. Questi pose fine con successo sia all’avventura fiumana sia all’occupazione delle fabbriche da parte degli operai ma il suo governo ebbe vita breve, di fronte all’ostilità dei socialisti, dei cattolici e dei nazionalisti e del mondo industriale.

Le elezioni svoltesi nel maggio 1921, che videro l’alleanza dei liberali con i nazionalisti e con i fascisti, uniti nel cosiddetto “blocco nazionale”, portarono alla caduta del governo Giolitti. Tra l’altro le elezioni videro l’entrata in parlamento di 35 deputati fascisti, tra i quali Mussolini. Nell’arco di un anno si succedettero tre governi: il primo dell’ex socialista riformista Ivanoe Bonomi e i successivi del giolittiano Luigi Facta.

Giolitti aveva pensato di poter “costituzionalizzare” i fascisti, assimilandoli nel sistema liberale, ma il suo calcolò si rivelò errato.

 

 

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