La marcia su Roma

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La marcia su Roma

Lo sciopero legalitario

In questo clima , l’Alleanza del Lavoro, cui avevano dato la propria adesione la Confederazione Generale del Lavoro, l’Unione Sindacale e il Sindacato dei lavoratori Portuali, proclamò per il 1° agosto 1922 uno sciopero generale in “difesa delle libertà politiche e sindacali”, definito Legalitario, per chiedere il ripristino della legalità e misure che ponessero fine alle violenze fasciste.

Contro la mobilitazione dei lavoratori si scatenò la violenza delle squadre fasciste per far fallire lo sciopero che essi dichiararono illegale. Numerosi e gravi furono gli scontri tra fascisti e manifestanti.

Il 3 agosto l’Alleanza del Lavoro sospese lo sciopero ma le aggressioni aumentarono e solo in poche città fu organizzata la resistenza alle azioni delle camicie nere. Le spedizioni punitive ebbero così un totale successo con la distruzioni di circoli, cooperative, sindacati, giornali. In pochi giorni furono occupati molti municipi e anche Milano, roccaforte socialista fu presa d’assalto. I fascisti distrussero la sede dell’Avanti. Le camicie nere entrarono a Palazzo Marino, sede del comune, con il consenso del prefetto della città.

La resistenza di Parma

barricate parmaSolo a Parma gli sviluppi dello sciopero furono ben diversi: la città divenne teatro di una resistenza armata alle squadre fasciste che, dopo cinque giorni di combattimenti, risultò vittoriosa. I lavoratori avevano risposto compatti allo sciopero e mostrarono grande capacità di mobilitazione e di combattività.

Nella città dal luglio 1921 operava l’organizzazione armata antifascista degli Arditi del Popolo, contro le aggressioni delle camicie nere.

Il PNF aveva mobilitato per la spedizione su Parma circa 10.000 uomini, guidati da Italo Balbo, già protagonista di analoghe spedizioni militari a Ravenna e a Forlì. Ma mentre a livello nazionale lo sciopero si esauriva e il fronte democratico veniva sconfitto, a Parma la resistenza si faceva sempre più tenace.

Il Comando degli Arditi del Popolo fece costruire sbarramenti, trincee, reticolati, con l’impiego di tutto il materiale disponibile e suddivise la città in quattro settori operativi. Gli Arditi del Popolo, grazie alle capacità organizzative messe in atto, all’appoggio della maggior parte della popolazione e alla neutralità dell’esercito, costrinsero le squadre fasciste a ritirarsi.

La marcia su Roma

Dopo quasi due anni di sistematiche violenze squadriste, dopo il fallito sciopero legalitario del 1922, appariva evidente che il “pericolo bolscevico” era praticamente scomparso. I dirigenti fascisti e Mussolini in particolare compresero che la borghesia, sostenitrice e finanziatrice del movimento, avrebbe potuto mutare orientamento nei loro confronti. Essi rischiavano ormai di apparire non più come apportatori di ordine ma di disordine, con le loro perduranti violenze. Mussolini decise perciò di intensificare l’azione volta alla presa del potere.

Per farlo egli combinò abilmente l’uso dello squadrismo fascista con le trattative e il compromesso politico.

In tal modo riuscì a mediare tra un’ala del partito che voleva la presa del potere tramite un’insurrezione armata e un’altra che voleva perseguire una via legalitaria e parlamentare. D’altra parte egli si rendeva conto che la prima soluzione aveva ben poche possibilità di successo, se non vi fosse stato il favore o quanto meno la neutralità dei “poteri forti”, tra cui, in particolare, il re, l’esercito, la Chiesa, gli industriali. In questo contesto, Mussolini organizzò la presa del potere con il supporto di un’azione militare che fu chiamata “marcia su Roma” un colpo di stato finalizzato alla conquista del governo.

Mussolini giocò la partita per il potere su due livelli paralleli: quello dei contatti con esponenti politici, della corona, dei militari e del mondo industriale e quello della mobilitazione e della organizzazione della cosiddetta “marcia su Roma”.

Il mondo imprenditoriale aveva assunto un atteggiamento di cauto favore nei confronti del fascismo, in particolare a seguito delle linee di politica economica di stampo nettamente liberista fatte proprie dal PNF e dal suo programma. Mussolini, inoltre, rinunciò alla “tendenzialità” repubblicana originaria, allo scopo di ottenere l’appoggio o almeno la neutralità delle forze più vicine alla monarchia e del sovrano. Tale posizione era opportuna anche per ottenere il favore dell’esercito, che non avrebbe mai accettato di schierarsi contro il re e che gli avrebbe ubbidito se dal re fosse venuto l’ordine di fermare i fascisti.

Sul piano politico l’azione di Mussolini si mosse abilmente tra trattative e minacce, con lo scopo di impedire possibili soluzioni governative che assegnassero al fascismo un ruolo secondario. Le varie soluzioni che emersero durante la crisi, da quella di un governo Giolitti, a quella di un nuovo governo Facta, a quella di un coinvolgimento di Gabriele D’Annunzio, a quella di un governo Salandra furono da lui neutralizzate. Intanto il PNF preparava la Marcia nei minimi dettagli e molte città venivano militarmente occupate dagli squadristi.

adunata NapoliQuattro giorni prima della marcia, il 24 ottobre a Napoli si tenne una grande assemblea del PNF che rivendicò la guida del governo.

La sera, all’Hotel Vesuvio si riunì il Consiglio nazionale del partito che stabilì le direttive di dettaglio per la marcia. La mattina dopo Michele Bianchi avrebbe lanciato ai suoi uomini il segnale convenuto: «Insomma, fascisti, a Napoli piove, che ci state a fare?»

La notte tra il 27 e il 28 ottobre le camicie nere guidate dai “quadrumviri” Balbo, Bianchi, De Bono e De Vecchi conversero sulla capitale. Mussolini si trovava a Milano in attesa degli sviluppi, senza al tempo stesso interrompere le trattative con varie personalità politiche.

Intanto in molte città, come Pisa, Cremona e Firenze gli squadristi stavano occupando edifici strategici come questure, prefetture, stazioni postali o telegrafiche, depositi di armi. Inoltre, i fascisti distruggevano al loro passaggio, come di consueto, sedi di giornali, di partiti e di case del popolo.

Il presidente del consiglio Facta, che per lungo tempo non comprese la gravità della situazione, alla notizia  della mobilitazione insurrezionale fascista decise di far intervenire l’esercito, ma il re rifiutò di firmare il decreto che proclamava lo stato d’assedio. Dimessosi Facta, Vittorio Emanuele III affidò l’incarico di formare un nuovo governo ad Antonio Salandra, con l’ipotesi di un governo Salandra-Mussolini. A questa soluzione erano favorevoli anche alcuni esponenti della destra fascista. Ma Mussolini respinse la proposta in modo netto, poiché ormai la situazione volgeva a suo favore, dopo la mancata decisione di far intervenire l’esercito contro i fascisti.

Mentre i fascisti cominciavano a occupare Roma, il 29 ottobre 1922 il re decise allora di conferire l’incarico di formare il nuovo governo allo stesso Mussolini.

Questi, partito da Milano la sera stessa, giunse a Roma la mattina del 30 ottobre per ricevere formalmente l’incarico. Fecero parte del suo governo, oltre a ministri fascisti, anche esponenti liberali, popolari, democratici e nazionalisti. Il 31 ottobre 1922 le camicie nere sfilarono dinanzi al Re, poi Mussolini comandò che si iniziassero le operazioni di smobilitazione.

 

 

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