Le “leggi fascistissime”

Tribunale speciale

Le “leggi fascistissime”

Dopo il discorso del 3 gennaio 1925, in cui Mussolini si assume la responsabilità morale e politica del delitto Matteotti, iniziò una fase di di smantellamento dello stato liberal-parlamentare e di creazione di un regime autoritario e dittatoriale. 

Tra il 1925 e il 1926 furono le cosiddette “leggi fascistissime”, provvedimenti che avrebbero portato alla progressiva sovrapposizione tra fascismo e Stato.

Rafforzamento dei poteri del governo.

mussolini governoLa legge 24 dicembre 1925 n. 2263 istituì la figura del Capo del governo (“capo del Governo primo ministro segretario di Stato”), che sostituiva la denominazione di Presidente del Consiglio dei ministri e che rispondeva del suo operato solo al re e non più al parlamento. Essa inoltre subordinò i ministri al primo ministro che poteva assumere la direzione di uno o più Ministeri e al quale spettava il controllo preventivo dell’agenda delle Camere.

Successivamente con la Legge 31 gennaio 1926 n. 100 fu data facoltà al potere esecutivo di emanare norme giuridiche. In tal modo il Consiglio dei ministri e in particolare il Capo del governo esercitava anche il potere legislativo, svuotando il Parlamento della sua reale funzione. Infatti la legge estendeva la facoltà di normare per decreto e rendeva più agevole la decretazione d’urgenza

Abolizione delle cariche elettive e istituzione del podestà.

Sciolti i consigli comunali, venne creata la figura del podestà, di nomina governativa:

La legge 4 febbraio 1926, n. 237 (“Istituzione del Podestà e della Consulta municipale nei comuni con popolazione non eccedente i 5000 abitanti”) istituì la figura del podestà nei comuni con popolazione fino a 5000 abitanti. Il podestà esercitava le funzioni svolte in precedenza dal Consiglio comunale (elettivo dal 1848), dal sindaco (carica elettiva dal 1890) e dalla Giunta comunale. Nominato con decreto reale, il podestà rimaneva in carica cinque anni con possibilità di rimozione da parte del prefetto oppure di riconferma oltre i cinque anni. Il Decreto regio 3 settembre 1926, n. 1910 (“Estensione dell’ordinamento podestarile a tutti i comuni del regno”) estese tale normativa a tutti i comuni d’Italia.

Inoltre, nel 1928 il regime riformò l’amministrazione provinciale introducendo al vertice della piramide gerarchica un Preside, nominato dal Ministro dell’Interno, e un Rettorato generale (Legge n. 2962 del 27 dicembre 1928). Infine, Mussolini rafforzò il ruolo del prefetto, “la più alta autorità dello Stato nella provincia” e il “rappresentante diretto del potere esecutivo” (Testo unico della legge comunale e provinciale approvato con R. D. 3 marzo 1934 n. 383).

Le repressione del dissenso

antifascistiDopo i falliti attentati a Mussolini del 4 novembre 1925 e del 31 ottobre 1926, il governo decise misure ulteriormente restrittive della libertà di stampa (con la censura su quotidiani e mezzi di informazione) e di organizzazione.

Il 5 novembre 1926 furono approvati i provvedimenti più duri: istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato; scioglimento di tutte le organizzazioni politiche e sindacali considerate “sovversive” e antifasciste; reintroduzione della pena di morte; istituzione del confino e di specifici reati politici.

Furono estese le attività di controllo del dissenso attraverso i prefetti e le forze dell’ordine. Nel 1930 fu ufficialmente istituita l’OVRA, la polizia segreta fascista.

Il governo pose la caccia all’attivista antifascista come primaria attività delle istituzioni repressive statali, prefetti, carabinieri, polizia e milizia. L’attività poliziesca fu affiancata dalla repressione giuridica dei tribunali. Gli impiegati dell’amministrazione statale sospettati di dissenso furono epurati.

Il Partito comunista, nemico per eccellenza del regime, fu la forza politica maggiormente perseguitata, ma gli attivisti Nel 1928 si svolse il cosiddetto “processone” contro il Comitato centrale del Partito comunista, i cui dirigenti furono arrestati o costretti a espatriare. Tuttavia, nonostante lo scioglimento, i comunisti riuscirono a far sopravvivere in clandestinità la propria organizzazione.

Le principali leggi in questo campo furono:

Legge 20 novembre 1925 n. 2029: restringe il diritto di associazione, sottopone le associazioni al controllo della polizia, adotta misure repressive più severe.

Legge 24 dicembre 1925 n. 2300: dà facoltà al governo di dispensare dal servizio funzionari, impiegati e agenti pubblici.

Legge 31 dicembre 1925, n. 2307: sottopone i giornali al controllo del prefetto, che deve approvare la scelta del direttore.

Legge 3 aprile 1926 n. 563: divieto di sciopero e di serrata, eliminazione di fatto di tutte le rappresentanze sindacali e istituzione del sindacato unico fascista.

Regio decreto 6 novembre 1926 n. 1848: riforma le norme di pubblica sicurezza in senso repressivo; introduce il confino di polizia contro i dissidenti; estende i poteri dei prefetti dando loro facoltà di sciogliere associazioni, enti, istituti, partiti, gruppi e organizzazioni politiche; abolisce tutti i partiti e dichiara decaduti i deputati “aventiniani”.

Legge 25 novembre 1926 n. 2008 (provvedimento per la difesa dello Stato): istituisce il Tribunale speciale per la difesa dello Stato composto da membri della milizia e da militari, e reintroduce la pena di morte.

Regio decreto 18 giugno 1931, n. 773: Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza.

Il Gran Consiglio come organo costituzionale

Con la Legge 9 dicembre 1928 n. 2693 il Gran Consiglio del Fascismo supremo organo del PNF divenne un organo costituzionale dello Stato. Esso aveva il compito di: esprimere pareri obbligatori ma non vincolanti su tutti gli oggetti di Stato; formare una lista di possibili successori al capo del governo in carica, interferendo con la regia prerogativa; redigere la lista unica elettorale. Il Gran Consiglio del Fascismo era presieduto dal capo del governo. Era composto da membri di diritto a vita o per la durata di specifiche funzioni e da membri nominati dal capo del governo per un triennio.

La nuova legge elettorale plebiscitaria

elezioni plebiscitarieCon la legge 17 maggio 1928 n. 1029 ed il Testo Unico 2 settembre 1928, n. 1993 fu introdotto un nuovo sistema elettorale di tipo “plebiscitario”.

La nuova legge elettorale prevedeva un Collegio unico nazionale chiamato a votare o a respingere una lista precostituita di 400 deputati, lista formata dal Gran Consiglio del Fascismo a partire da una rosa di 850 candidati proposti dalle confederazioni corporative nazionali, 200 candidati proposti da associazioni ed enti culturali ed assistenziali ed ulteriori candidati scelti dal Gran Consiglio stesso. Gli elettori potevano esprimersi con un “sì” o un “no” sul complesso della lista.

La legge conteneva alcune modifiche in materia di elettorato attivo, che veniva riconosciuto ai maschi di età superiore ai 21 anni (o ai 18 se ammogliati con prole), purché pagassero i contributi sindacali o fossero amministratori di società ed enti, o percepissero uno stipendio a carico dello Stato o una pensione, o pagassero almeno 100 lire di imposte dirette o detenessero una certa quota di titoli del debito pubblico o infine fossero membri del clero cattolico regolare e secolare. Questa norma, insieme che l’esclusione dall’elettorato attivo dei membri dei corpi militari, portò ad una significativa contrazione degli aventi diritto da 11.939.552 a poco più di 9.500.000.

I due plebisciti del 1929 e del 1934 videro una partecipazione al voto particolarmente consistente (89,63% e 96,25%) e un numero molto alto di voti favorevoli alla lista proposta. Le elezioni, infatti, si svolsero in un clima di intimidazioni e di palese violazione del principio di segretezza del voto.

Nel corso degli anni ’30 gli ultimi residui della concezione liberaldemocratica della rappresentanza politica furono cancellati: la Legge 19 gennaio 1939, n. 129 abrogò la Camera dei deputati e la sostituì con la Camera dei fasci e delle corporazioni, organo non elettivo.

L’opposizione antifascista

L’opposizione politica antifascista si trovò di fronte a un bivio: espatriare e costruire l’opposizione all’estero o restare in patria e scegliere la lotta clandestina. La maggioranza delle forze politiche (liberali, repubblicani, socialisti e cattolici sociali) scelse la prima strada. I comunisti, invece, pur avendo basi d’appoggio all’estero, rimasero l’unica organizzazione con strutture adatte alla lotta clandestina in Italia. Anche la formazione repubblicano-radicale di “Giustizia e Libertà” che aveva molti suoi dirigenti espatriati in Francia, riuscì a mantenere alcuni nuclei clandestini in Italia.

 

 

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