Thompson, La protesta operaia contro la meccanizzazione della filatura

Thompson, La protesta operaia contro la meccanizzazione della filatura

L’Indirizzo del filatore di Manchester fu redatto in un momento in cui la protesta contro le macchine e le tensioni sociali avevano raggiunto un culmine esplosivo.
Nell’agosto 1819, pochi mesi dopo la presentazione dell’Address, una grande manifestazione operaia tenuta proprio a Liverpool si trasformò in un violento scontro con la polizia, con undici morti e centinaia di feriti.


I proprietari di filanda sono una classe d’uomini diversa da tutti gli altri padroni del regno: ignoranti, altezzosi e tirannici. Che cosa saranno dunque gli uomini, o meglio gli esseri, che ne sono gli strumenti? Be’, per una serie d’anni essi sono stati, con le loro mogli e famiglie, la pazienza in carne ed ossa – schiavi e schiave di padroni crudeli. Vano è offendere l’intelligenza comune dicendo che sono liberi; che la legge protegge egualmente i ricchi e i poveri; che un filatore può lasciare il padrone se il salario non gli aggrada. È vero: lo può; ma dove andrà? Be’ da un altro! Ci va, infatti, e si sente chiedere dove lavorava prima: «Ti hanno licenziato?» No, non ci siamo messi d’accordo sul salario. «Allora non assumo né te, né chiunque lasci il padrone in questo modo». Perché? Perché esiste fra i padroni una coalizione abbominevole, stabilitasi dapprima nel 1802 a Stockport e poi divenuta così generale, da abbracciare tutti i grandi imprenditori nel raggio di molte miglia intorno a Manchester – sebbene non i piccoli, che ne sono esclusi, essendo per i grandi gli esseri più sgraditi… Quando tale coalizione si formò, uno dei suoi primi articoli fu che nessun padrone dovesse assumere un operaio prima di accertarsi che l’ultimo padrone non l’avesse licenziato. Che cosa farà, dunque, l’infelice? Se bussa alla parrocchia, – questa tomba d’ogni indipendenza, – gli si dice: «Non ti forniremo assistenza; se bisticci col padrone e non mantieni la famiglia, ti manderemo in carcere»; così, per un concorso di circostanze, egli è costretto a sottomettersi al padrone. Non può viaggiare in cerca di lavoro come un calzolaio, un falegname o un sarto; è confinato nel distretto.

Gli operai, in genere, sono inoffensivi, umili e ben informati, sebbene come imparino ciò che sanno è per me quasi un mistero. Sono docili e trattabili se non gli si sta troppo al pelo; ma questo non può far meraviglia, se si pensa che dai sei anni di vita sono allenati a lavorare dalle ore cinque alle venti e alle ventuno […]. Lo schiavo negro delle Indie Occidentali, se sgobba sotto un sole che toglie la pelle, almeno ogni tanto ha un soffio d’aria a sventagliarlo; e un pezzo di terra; e il tempo di metterlo a coltura. Il filatore inglese, schiavo anche lui, non gode l’aria aperta e le brezze del cielo. Imprigionato in fabbriche alte otto piani, non ha pace prima che la macchina ponderosa si arresti; allora torna a casa per rinfrescarsi in vista dell’indomani; per la dolce associazione con la famiglia non c’è tempo; sono tutti, allo stesso grado, stanchi ed esausti. Non è un ritratto caricato, questo; è letteralmente vero […].

Quando la filatura del cotone era nell’infanzia, e prima che venissero in uso i terribili congegni per sopprimere la necessità del lavoro umano, chiamati macchine a vapore, c’era un gran numero di quelli che allora si chiamavano piccoli mastri; uomini che con un piccolo capitale potevano procurarsi qualche macchina, e assumere un pugno d’uomini (diciamo fino a venti o trenta), adulti o giovani, il prodotto del cui lavoro giungeva al mercato centrale di Manchester per esservi posto nelle mani dei sensali… Questi lo rivendevano ai bottegai, per modo che il mastro-filatore poteva starsene a casa sua, e lavorare egli stesso, e vegliare sui suoi lavoranti. Il cotone allora era sempre ceduto a domicilio, greggio com’era in balla, alle mogli dei filatori, che lo scaldavano, lo ripulivano pronto per la filatura, e potevano guadagnare otto, dieci o dodici scellini la settimana pur cucinando e accudendo alla famiglia. Ma oggi nessuno è impiegato così, perché il cotone è aperto da una macchina azionata a vapore, chiamata il “diavolo”; per cui le mogli dei filatori sono disoccupate, a meno che vadano in fabbrica tutto il giorno per pochi scellini, quattro o cinque la settimana, alla pari con i ragazzi. Un tempo, se un uomo non riusciva ad accordarsi col padrone, lo piantava; e poteva farsi assumere altrove. Ma pochi anni hanno cambiato faccia alle cose. Sono entrate in uso delle macchine a vapore per acquistare le quali, e per costruire edifici sufficienti a contenerle insieme a sei o settecento braccia, si richiedono grossi capitali. La forza-vapore produce un articolo più commerciabile (sebbene non migliore) di quello che il piccolo mastro era in grado di produrre allo stesso prezzo: la conseguenza fu la rovina di quest’ultimo, e il capitalista venuto su dal nulla godette della sua caduta, perché era il solo ostacolo esistente fra lui e il controllo assoluto della manodopera.

E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Il Saggiatore, Milano 1969, pp. 199-201.

Analisi del testo

Il brano, tratto dall’Indirizzo del filatore di Manchester, evidenzia tre aspetti dello sviluppo industriale capitalistico: l’assenza di libertà reale, da parte dell’operaio che, se volesse licenziarsi, non troverebbe lavoro presso altri proprietari di filanda, che si sono accordati per impedirlo; la durezza delle condizioni di lavoro e di vita dell’operaio, peggiori di quelle di uno “schiavo negro delle Indie Occidentali”; l’eliminazione della piccola produzione manifatturiera e del lavoro a domicilio, sbaragliata dalle industrie meccanizzate di grandi dimensioni.

  1. Che cosa contraddistingue i proprietari di filanda?
  2. Per quale ragione la teorica libertà dell’operaio non è reale?
  3. Per quali aspetti la condizione dell’operaio è peggiore di quella di uno “schiavo negro delle Indie Occidentali”?
  4. Quali conseguenze ha prodotto l’introduzione delle macchine a vapore nel settore della filatura?

 

 

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