Il ’68 in Italia.

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Il Sessantotto in Italia

Crisi della scuola di massa

La scuola, soprattutto l’università, era inadeguata a sostenere la scolarizzazione di massa verificatasi in negli anni Sessanta. Nel 1956-1957 gli iscritti ai corsi di laurea erano circa 212.000, mentre dieci anni dopo erano saliti a quota 425.000, per cui quella che era l’Università di élite diventò Università di massa. Gli insegnanti di ruolo erano solo tremila e gli spazi, i laboratori e le biblioteche erano insufficienti. L’insegnamento era in mano ai «baroni» e i docenti dei corsi importanti si rivolgevano a una calca di allievi che a stento ne percepivano la voce. Soprattutto in alcune facoltà come Architettura, Medicina e Giurisprudenza i docenti spesso esercitavano la libera professione, considerando l’insegnamento di secondaria importanza. Solo uno studente su quattro si laureava. Inoltre, molti giovani non condividevano più i valori dominanti nell’Italia del “miracolo economico”: l’individualismo, l’esaltazione della famiglia, la corsa ai consumi.

Il progetto di riforma Gui

Nel novembre del 1967, dopo un iter di oltre due anni di discussione in commissione parlamentare, il d.d.l. 2314 («legge Gui») approdò in Parlamento. Tuttavia, non mancavano le critiche e le proposte di modifica sia da parte dell’opposizione sia da parte degli stessi partiti di governo, senza contare poi che nelle università italiane si stava innescando un’agitazione studentesca di un’estensione mai vista prima.

Pisa: l’occupazione della Sapienza

Il 7 febbraio 1967, oltre settanta studenti raggiunsero il palazzo della Sapienza dell’Università di Pisa e lo occuparono. Non erano solo studenti dell’ateneo pisano ma provenivano da diverse università italiane, per protestare contro la riforma dell’università del ministro Gui. Durante l’occupazione i leader (tra cui Adriano Sofri) del movimento elaborarono il “Progetto di tesi del sindacato studentesco elaborate collettivamente dagli occupanti La Sapienza di Pisa”, noto come le “Tesi della Sapienza”. L’occupazione finì con l’irruzione della polizia nella notte dell’11 febbraio, dopo che il rettore Alessandro Faedo ne aveva autorizzato l’intervento.

Le prime occupazioni

In marzo del 1967 fu occupata la facoltà di Sociologia di Trento, che organizzò una settimana di mobilitazione per il Vietnam. In aprile fu occupata la Facoltà di Architettura di Venezia, fino all’intervento della polizia, il 20 luglio.

Il 18 novembre si mobilitarono gli studenti dell’Università Cattolica di Milano, dove si mise in evidenza come leader Mario Capanna che, espulso, si iscrisse alla Statale. Il 27 novembre 1967 fu occupato Palazzo Campana, allora sede delle facoltà umanistiche, a Torino. Dal dicembre 1967 al febbraio 1968 furono occupate quasi tutte le università italiane.

A Torino le facoltà furono occupate e sgomberate più volte. I leader della contestazione, tra cui Guido Viale e Luigi Bobbio, furono incarcerati e per la loro liberazione lunghi cortei sfilarono per la città. Di fronte al dilagare delle occupazioni i rettori chiesero l’intervento della polizia. Alla ripresa delle lezioni, dopo l’interruzione natalizia, ricominciarono le proteste. L’8 gennaio 1968 si svolse a Torino una riunione di rappresentanti delle scuole occupate.

Roma: la “battaglia di Valle Giulia”

Il 2 febbraio 1968 fu occupata l’università di Roma. Alla fine del mese, il rettore D’Avack fece intervenire la polizia. Il 1º marzo un corteo di protesta arrivò a Valle Giulia, sede della facoltà di Architettura e forzò i blocchi della polizia, con violenti scontri tra studenti e forze dell’ordine che durarono per ore. I giornali, in edizione straordinaria, parlarono di “battaglia” di Valle Giulia. Con i fatti di Valle Giulia il movimento studentesco passò dal piano di una protesta universitaria a quello di una contrapposizione frontale con l’intero assetto sociale. La battaglia di Valle Giulia fu anche l’ultima azione in cui studenti di sinistra e di destra agivano insieme. Lo scrittore Pier Paolo Pasolini, in questa occasione, pur riconoscendo che erano dalla parte della ragione, accusò gli studenti di essere borghesi e figli di papà, che si erano scontrati con i poliziotti, che erano figli di proletari.

L’estendersi delle agitazioni

68Il 23 febbraio a Milano gli studenti occuparono l’Università Statale e il 1^ marzo gli studenti medi occuparono il Liceo Parini. Le occupazioni proseguirono in quasi tutte le università italiane e si estesero alle scuole medie superiori, con frequenti scontri tra studenti e polizia. In autunno gli studenti medi occuparono ovunque gli istituti e riempiono le piazze con grandi cortei. Il 3 dicembre a Roma sfilarono 30.000 studenti medi. Alla protesta contro l’assetto scolastico si sommava quella contro la polizia, che il giorno precedente aveva sparato ad Avola in Sicilia contro una manifestazione di braccianti, uccidendone due.

Il 1968 si chiuse tragicamente nella notte del 31 dicembre, quando un gruppo di studenti pisani contestò un veglione di lusso di fronte al locale versiliese “La Bussola”. Durante gli scontri che ne seguirono il sedicenne Soriano Ceccanti fu gravemente ferito da un colpo di pistola alla colonna vertebrale, restando paralizzato.

Gli obiettivi della contestazione

Nelle università gli studenti partecipavano alle assemblee e alle occupazioni delle facoltà, dando vita ad attività didattiche alternative, mentre scomparvero i parlamentini e le associazioni goliardiche. Nelle assemblee si discussero temi quali i diritti delle donne, la non neutralità della scienza, l’opposizione alla guerra del Vietnam. 

La scuola

Nel mirino della contestazione ci furono la connotazione classista della scuola, denunciata anche da una parte del mondo cattolico, a partire da don Lorenzo Milani autore di Lettera a una professoressa, e l’autoritarismo accademico. La scuola di Barbiana, fondata da don Milani, cercava di recuperare, con innovativi metodi didattici, gli alunni provenienti da fasce sociali povere che la scuola aveva respinto. Gli studenti del ’68 criticarono la selettività della scuola, discriminatoria nei confronti degli studenti delle classi povere e ferma a pratiche e programmi risalenti all’epoca fascista. Essi contestarono la tradizionale trasmissione cattedratica del sapere e polemicamente chiesero il “sei politico” uguale per tutti, rivendicando una profonda trasformazione dei saperi e delle metodologie didattiche.

La critica alla neutralità della scienza.

Anche in campo scientifico il movimento del Sessantotto fece sentire il suo peso: in molte facoltà scientifiche si sviluppò una critica alla pretesa neutralità della scienza, accusata di celare dietro la sua presunta oggettività la subordinazione agli interessi della classe dominante, la borghesia. La scienza istituzionale fu accusata di gravi responsabilità in alcune delle più grandi tragedie dell’età contemporanea (stermini di massa, bomba atomica, ecc.) e di avere sviluppato direzioni di ricerca funzionali al sistema del profitto. Scienziati e professionisti crearono associazioni che assunsero un approccio critico: medicina democratica, psichiatria democratica, magistratura democratica. 

Carceri e manicomi.

Si sviluppò una forte critica ai luoghi di detenzione, come le carceri e gli ospedali psichiatrici: l’istituzione carceraria fu vista come strumento di repressione nei confronti dei proletari e come mezzo di difesa della proprietà privata borghese. I manicomi furono visti come forme di inutile prigionia per i malati e come comodi mezzi per la società per non affrontare realmente il problema della malattia mentale che ha origine nelle strutture e nei meccanismi della società.

Filoni di pensiero

Nella cultura del movimento confluirono diversi filoni di pensiero critico e di protesta sociale che erano nati gli anni Sessanta: l’elaborazione delle riviste della sinistra non istituzionale e quella dei vari gruppi cattolici dissenzienti; la critica alla società dei consumi elaborata dalla Scuola di Francoforte e da Herbert Marcuse (“L’uomo a una dimensione”); i fermenti terzomondisti innescati dalle lotte di liberazione dei popoli ex coloniali e dalla guerra nel Vietnam; l'”antipsichiatria” di Franco Basaglia, all’ospedale di Gorizia; il movimento libertario giovanile sviluppatosi negli anni del “beat italiano”; il femminismo e le lotte delle donne.

Il ’68 e i partiti tradizionali

La critica del movimento studentesco si rivolgeva contro il sistema capitalistico e contro i governi democristiani ma anche contro le organizzazioni della sinistra, accusate di rinunciare a qualsiasi ipotesi di trasformazione radicale della società. Nell’immediato i partiti tradizionali si espressero contro le occupazioni. Anche il PCI inizialmente condannò l’estremismo di quelli che bollava come “falsi rivoluzionari borghesi”, mentre in seguito appoggiò la mobilitazione degli studenti.

Lotte operaie e studenti

68Le lotte degli operai, sviluppatesi durante gli anni Sessanta nelle fabbriche, miravano a migliorare le condizioni di lavoro, radicalmente trasformate dall’introduzione della catena di montaggio, che aveva messo in crisi la professionalità dell’operaio di mestiere. L’operaio-massa chiedeva di esercitare un controllo sui ritmi del lavoro e di beneficiare dell’aumentata produttività, con aumenti uguali per tutti.

A Torino il 7 marzo 1968 uno sciopero generale indetto dai sindacati registrò per la prima volta da anni una massiccia adesione degli operai Fiat. Scioperi e manifestazioni si susseguirono e alle proteste dei lavoratori parteciparono anche gli studenti universitari. Fra questi c’era Guido Viale, uno dei leader dell’occupazione di Palazzo Campana.

Il 19 aprile del 1968 a Valdagno, dopo mesi di proteste contro il piano di riorganizzazione dell’azienda, che prevedeva un aumento del cottimo e un consistente numero di licenziamenti, gli operai della Marzotto si scontrarono con la polizia e abbatterono la statua di Gaetano Marzotto, fondatore della dinastia e dell’azienda. In estate un aspro conflitto operaio si accese al Petrolchimico di Porto Marghera. In ottobre, alla Pirelli di Milano, nacque il CUB, comitato unitario di base, prima struttura autonoma operaia svincolata dalla leadership dei sindacati.

Intanto, nel mese di giugno del 1968 a Venezia, si erano incontrati gli esponenti di varie università italiane e cominciò a profilarsi un possibile collegamento tra lotte studentesche e lotte operaie.

L’autunno caldo

Tra maggio e giugno del 1969 una serie di scioperi spontanei e improvvisi, proclamati al di fuori del controllo sindacale, paralizzò la produzione alla Fiat per oltre 50 giorni. In prima fila ci furono gli operai meno qualificati e meno sindacalizzati, spesso immigrati dal Meridione, che diedero vita a un’assemblea congiunta con gli studenti. 

Il 3 luglio, in occasione di uno sciopero generale cittadino, gli operai torinesi affrontarono per 24 ore la polizia. Il conflitto riprese su larga scala in autunno, quando arrivarono a scadenza i contratti di lavoro che riguardavano oltre 5 milioni di operai. L'”autunno caldo” segnò il momento di massimo scontro sociale nell’Italia del dopoguerra. Gli operai chiedevano aumenti salariali uguali per tutti e il miglioramento delle condizioni di lavoro in fabbrica. 

I sindacati, in un primo momento furono colti di sorpresa dalle dimensioni dell’agitazione operaia. Nelle fabbriche le commissioni interne furono sostituite dalle assemblee operaie e dai consigli di fabbrica. I contratti furono firmati prima della fine dell’anno.

In un clima di asprezza senza precedenti, il 12 dicembre a Milano una bomba esplose nella Banca nazionale dell’agricoltura uccidendo 12 persone. Fu l’inizio della “strategia della tensione”, con una sanguinosa catena di stragi, per lo più impunite, che si ripeteranno per tutti gli anni Settanta. 

Una rivoluzione mancata? Esiti del Sessantotto

Tra il 1968 e il 1969 nacquero alcuni dei principali gruppi della cosiddetta sinistra extraparlamentare, che si dissero rivoluzionari e che spesso predicarono la rivoluzione come imminente. Tra le formazioni più importanti vi furono Il Manifesto (1969), Avanguardia Operaia (1968), Movimento Studentesco (1968), Potere Operaio (1967), Lotta Continua (1969). Tuttavia queste organizzazioni politiche sono tutte scomparse nell’arco di un decennio circa dalla loro nascita. Solo il giornale Il Manifesto, è sopravvissuto nel tempo. Lotta Comunista, organizzazione allora già presente da oltre un decennio (e ancora oggi esistente), vide nelle agitazioni studentesche e operaie l’occasione per reclutare quadri, valutando che quei moti non preludessero affatto a una rivoluzione.

68Fu quello del ’68 un movimento rivoluzionario? Certamente non lo fu in senso tradizionale: non ci fu affatto la rivoluzione proletaria. Anzi, sul piano politico, nel corso degli anni Settanta vi fu una duplice sconfitta. Da un lato una parte dei leader emersi nel ’68, soprattutto dopo l’ultima fiammata del ’77, diede vita a organizzazioni terroristiche, in quelli che sono stati definiti gli “anni di piombo”, con esito infausto. Gli altri, in misura molto più consistente, furono riassorbiti da movimenti e partiti “tradizionali”, in primo luogo il PCI, o comunque tutt’altro che rivoluzionari (vedi, ad esempio, la confluenza di molti di loro verso il PSI craxiano prima e verso Forza Italia poi).

Tuttavia il Sessantotto ha contribuito in misura rilevante a cambiare il mondo della scuola, gli stili di vita, la cultura, l’espressione artistica. Una conseguenza del movimento del Sessantotto fu quella di creare le condizioni politiche e culturali affinché si realizzassero, negli anni successivi, importanti provvedimenti legislativi come lo Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300), la legge divorzio (legge 1º dicembre 1970, n. 898), la legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare (legge 15 dicembre 1972 n. 772) e la Legge Basaglia che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio (la legge 13 maggio 1978, n. 180).

 

 

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