Il crollo della Borsa di Wall Street.

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Il crollo della Borsa di Wall Street.

 

Primi segnali nel settore agricolo

Sul finire degli anni ’20 l’economia americana iniziò a dare i primi segnali di rallentamento, che riguardarono anzitutto il settore agricolo. La caduta della domanda di prodotti agricoli da parte dei paesi europei, per lo più determinato dall’innalzamento di barriere doganali e dalla ripresa della produzione nazionale, rese più difficile la vita agli agricoltori americani. Il mercato interno non era infatti sufficiente ad assorbire l’enorme quantità di cereali che il moderno settore primario produceva. 

Molti contadini, a partire da quelli con gli appezzamenti di terra più piccoli, alle prese con redditi insufficienti, iniziarono così a contrarre con le banche debiti sempre più onerosi. 

Febbre speculativa e abnorme crescita del valore delle azioni

Nel frattempo la febbre speculativa sembrava non subire battute d’arresto. Le rapide fortune ottenute giocando in borsa, alimentate da un sistema creditizio pronto a supportare ogni avventura, invogliarono larghi settori della popolazione a investire in azioni. 

Il mercato era del resto al suo apice, gonfiato dall’invenzione e dalla diffusione di molteplici sistemi di finanziamento (come ad esempio quelli “a riporto”, che consentivano di acquistare azioni senza pagarne interamente il prezzo oppure dalla possibilità di versare solo il 30 o 50% del valore delle azioni comprate, lasciando che fossero i guadagni futuri a ripagare la cifra totale) e dalle innovazioni tecniche (come la possibilità di comprare azioni telefonicamente o telegraficamente). Particolarmente importante fu poi l’investimento speculativo nell’edilizia di stati come la Florida, che vivevano il boom delle abitazioni per agiati anziani in pensione. I molti segnali del rallentamento economico, dovuto alla saturazione del mercato dei beni durevoli (gli elettrodomestici, le radio e le auto si compravano una volta sola nella vita, con cambiali, rate e sacrifici), non furono colti. Le azioni delle imprese, che nel frattempo iniziavano a incontrare difficoltà sempre più evidenti nel vendere i propri prodotti, continuarono infatti a volare in borsa. Si creò così una serie di bolle speculative pronte per esplodere. 

Il pericolo non solo venne sottovalutato, ma fu in parte aggravato dalla decisione della Federal Reserve System – il corrispondente della Banca centrale – di avviare una manovra di restrizione del credito, con aumento del tasso d’interesse per i prestiti, al fine di tenere sotto controllo l’inflazione. 

Nel settembre 1929 giunsero così i primi ordini di vendita di titoli da parte delle banche d’affari: la diga stava a poco a poco cedendo. Le ragioni del crollo vanno perciò ricercate nella crescita indiscriminata e anomala del valore dei titoli azionari, avvenuto nel corso degli anni Venti. La domanda di azioni era cresciuta costantemente determinando un aumento del loro prezzo: tra il 1926 e il 1929 le azioni triplicarono il proprio valore medio. 

In seguito al continuo incremento del volume degli acquisti, i prezzi delle azioni divennero sempre più alti e questo diede vita a un’espansione degli investimenti finanziari. Molti impegnarono tutti i propri risparmi, incoraggiati da consulenti disonesti o incompetenti. Si trattò di un boom eccezionale, sganciato però dallo sviluppo dell’economia reale (cioè al valore effettivo delle aziende) e fondato soprattutto sui movimenti di capitale a scopo speculativo di finanzieri spregiudicati.

La speculazione al ribasso

A un certo punto iniziò a diffondersi il timore che questa crescita sarebbe cessata. Quando nell’autunno del 1929 iniziarono a manifestarsi i primi segnali della crisi di sovrapproduzione che colpiva gli Stati Uniti a causa sia della ridotta offerta di moneta sia della riduzione della domanda interna e delle sempre maggiori difficoltà di esportazione, l’ondata speculativa si orientò al ribasso, provocando immediatamente il crack. 

Alcuni operatori finanziari pensarono di poter realizzare maggiori profitti speculando al ribasso, perciò iniziarono a svendere le proprie azioni. Tale tendenza si sviluppò al punto che il 23 ottobre più di sei milioni di azioni furono vendute a prezzi sempre più bassi e il giorno seguente, il “giovedì nero”, ne furono negoziate più del doppio. Il lunedì successivo (28 ottobre) furono ceduti nove milioni di azioni. 

Il martedì nero e il crollo

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Martedì 29 ottobre (il “martedì nero”) ne furono vendute oltre sedici milioni: il prezzo delle azioni di numerose imprese di grandi dimensioni, come la General Electric, precipitò. Il valore delle azioni diminuì di quattordici miliardi di dollari in meno di una settimana. Ciò ebbe un riflesso immediato sulle altre Borse valori degli Stati Uniti, da Chicago a San Francisco. Le quotazioni caddero a picco: in un mese i titoli persero il 40 per cento del loro valore. 

Alla fine dell’anno le perdite ammontavano già a 40 miliardi di dollari, ma il crollo continuò ininterrotto fino all’8 luglio 1932, quando l’indice del “New York Times”, fondato sulle quotazioni di venticinque titoli particolarmente significativi, toccò il suo minimo storico (58 punti contro i 452 del settembre 1929). Dal sistema borsistico il contagio si propagò rapidamente al sistema bancario. Non solo i detentori di titoli prosciugarono i loro depositi nel tentativo di “resistere” finché il valore delle azioni possedute fosse tornato a crescere, ma presto furono gli stessi correntisti a dubitare della tenuta della banca a cui avevano affidato i propri risparmi. 

Il fallimento di alcune imprese, che coinvolse gli istituti bancari che avevano fatto loro credito, produsse un clima di panico generalizzato nei risparmiatori. In quei giorni si formarono lunghe file di persone che, in coda davanti alle banche, si affrettavano a ritirare i loro depositi. Furono migliaia le banche di piccole e piccolissime dimensioni che, sottoposte alla pressione dei correntisti e non riuscendo a recuperare i crediti fatti alle imprese, alla fine cedettero e chiusero i battenti. 

Da parte sua la Federal Reserve, dominata dall’ideologia liberista e dal dogma ottocentesco del “mercato che si autoregola”, non concedette agli istituti finanziari i prestiti che avrebbero potuto arrestare il panico e probabilmente salvare il sistema bancario.

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