La Brexit: da David Cameron a Boris Johnson

Brexit

La Brexit: da David Cameron a Boris Johnson

Che cos’è la Brexit

Brexit (dall’inglese Britain o British + exit) è il termine con cui si indica l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, secondo le modalità previste dall’articolo 50 del Trattato di Lisbona sull’Unione europea, come conseguenza del referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’UE.

La Brexit è la conseguenza del referendum consultivo svoltosi in Gran Betagna nel 2016, indetto dall’allora Premier David Cameron.

I rapporti tra il Regno Unito e l’Unione europea

Fin dalle origini del processo di integrazione europea, l’atteggiamento della Gran Bretagna verso l’Europa è stato contraddistinto da scetticismo e talvolta persino da ostilità. Tuttavia, dopo la Seconda Guerra Mondiale, Winston Churchill sembrò favorevole al processo di unione europea. Le elezioni del luglio del 1945 portarono però alla vittoria elettorale dei laburisti, guidati da Clement Attle e parallelamente, vi fu un raffreddamento dei rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica. In questo quadro, la Gran Bretagna privilegiò la storica special relationship con Washington piuttosto che unirsi agli altri paesi dell’Europa occidentale che stavano ponendo le prime basi del processo di integrazione.

Dopo il ritorno al governo dei conservatori nel 1951 la Gran Bretagna compì un estremo, fallimentare tentativo di riaffermare la propria potenza imperiale. Tuttavia, dopo la crisi di Suez apparve evidente che essa era ormai costretta a ridimensionare le proprie ambizioni. Divenuto Primo ministro nel 1957 il conservatore Harold McMillan accelerò il ritiro dallo spazio imperiale. A fronte della nascita della Comunità economica europea (CEE) McMillan rispose con l’istituzione dell’Associazione europea di libero scambio (European free trade agreement, EFTA). Tuttavia i successi della CEE sul piano economico lo convinsero a presentare nel 1961 la prima richiesta d’ingresso nel mercato comune, respinta dal generale Charles De Gaulle che considerava i Britannici un “cavallo di Troia” degli Americani.

Solo nel 1973 la Gran Bretagna poté accedere alla Comunità economica europea (CEE), quando il veto francese di De Gaulle venne meno. Al voto parlamentare che approvò l’accordo fece seguito il primo referendum della storia del Regno Unito, nel quale l’elettorato si pronunciò a larga maggioranza per l’ingresso nella CEE. A metà degli anni Settanta sembrò che la Gran Bretagna privilegiasse ormai l’ambito europeo, malgrado la permanenza di legami profondi con gli ex territori imperiali e con gli Stati Uniti. Tuttavia, i rapporti tra il Regno Unito e l’Europa, fin dall’adesione alla CEE, sono stati caratterizzati da incertezze e ripensamenti. Londra si è sempre schierata a favore di una visione europeista moderata, avversando qualsiasi modifica in chiave sovranazionale delle sue istituzioni e dei suoi accordi (non fa parte dell’area Schengen, né dell’unione monetaria, non avendo adottato l’euro).

I rapporti di Margaret Thatcher la “lady di ferro” (dal 1979 al 1990) con l’Europa e con i leader di alcuni paesi europei furono piuttosto difficili. La Thatcher criticò il contributo finanziario britannico alla UE, da lei ritenuto eccessivo. La sua affermazione “I want my money back!” (“Rivoglio indietro il mio denaro!”) divenne proverbiale nel Regno Unito e le sue crociate antieuropeiste lasciarono un’impronta di netta distinzione dall’Europa. Il suo successore della Thatcher, John Major firmò il trattato di Maastricht del 1992, che creava l’Unione europea ma la Gran Bretagna non aderì alla moneta unica europea..

Con i governi laburisti di Tony Blair e di Gordon Brown (1997-2010), la Gran Bretagna sembrò maggiormente convinta che la partecipazione all’Unione Europea fosse ormai strategicamente fondamentale. Parallelamente Blair sviluppò una politica di devoluzione dei poteri in Irlanda del Nord (Ulster), Scozia e Galles per arginare il diffondersi dei nazionalismi e dei separatismi che negli anni Settanta e Ottanta avevano causato seri conflitti, in particolare la lotta armata in Irlanda del Nord (vedi la firma a Belfast, il 10 aprile 1998, dell'”Accordo del Venerdì Santo“.

Ma le pressioni antieuropeiste interne riemersero negli anni seguenti, che videro tra l’altro l’affermarsi del Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (UKIP), nato nel 1993 da un gruppo di scissionisti del Partito Conservatore. L’UKIP, che si propose fin dalla nascita come obiettivo principale il ritiro del Regno Unito dall’Unione europea.

Il referendum sulla Brexit

L’11 maggio 2010 divenne Primo Ministro David Cameron, leader del Partito conservatore. Per aumentare la pressione su Bruxelles e strappare così accordi con l’UE più favorevoli per il Regno Unito, nel novembre 2015 il premier britannico indisse un referendum consultivo, non vincolante, sulla permanenza nell’Unione Europea, convinto della vittoria del “Remain” (prevista dai sondaggi). Egli voleva mostrare a Bruxelles e ai partner europei il pericolo concreto di un’uscita del Regno Unito dall’Unione, per ottenere maggiori concessioni nella trattativa in corso (conclusasi nel febbraio 2016). Egli stesso però si schierò contro l’uscita, che non era un suo obiettivo politico.

In vista del referendum, previsto per il 23 giugno 2016, si formarono due schieramenti:

La campagna elettorale fu gravemente segnata, una settimana prima del voto, dall’assassinio da parte di un fanatico del Leave della deputata laburista Jo Cox, fermamente schierata per il Remain.

La consultazione popolare vide un risultato a sorpresa che smentì i sondaggi: i favorevoli all’uscita dall’UE furono il 51,9%, contro il 48,1% che votarono per la permanenza.

Il Remain prevalse nettamente in Scozia, in Irlanda del Nord, a Londra e nella maggior parte delle aree urbane, come Manchester, Leeds, Glasgow, Liverpool, Newcastle, Bristol, Leicester, Edimburgo, Belfast, Brighton e Cardiff. Tra le otto aree dove prevalse il Leave solo Birmingham è tra le metropoli maggiori. Seguivano alcuni centri delle Midlands e del Nord-Est (Stoke-on-Trent, Coventry, Nottingham, Sheffield, Middlesbrough) e al Sud Southampton e Bournemouth. In sostanza il Leave ottenne maggiori consensi principalmente nelle campagne e nelle periferie dell’Inghilterra.

L’azzardo di David Cameron si risolse così in una catastrofe politica. Cameron, constatato il fallimento della sua politica, si dimise il 24 giugno 2016 e fu sostituito come primo ministro da Teresa May.

Le “ragioni” del Leave

Una prima ragione della vittoria del Leave fu dovuta alla crisi economica, in particolare finanziaria, iniziata nel 2008 e alle sue conseguenze. Il voto per la Brexit fu, almeno in parte, una manifestazione di dissenso nei confronti della classe politica britannica, soprattutto nelle aree del Galles e dell’Inghilterra del Nord che avevano fortemente subito le conseguenze della crisi. Una seconda ragione fu costituita dall’ascesa dei nazionalismi e dei populismi, nell’intera Europa, che alimentarono la reazione contro l’immigrazione e il risentimento popolare contro le élite. Questo fenomeno in Gran Bretagna si è espresso principalmente attraverso il Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (UKIP), guidato fino al 2016 da Nigel Farage. Tuttavia, il voto degli Inglesi è stato anche influenzato fortemente dall’ala più tradizionalista del Partito conservatore (e dall’UKIP), intenzionata a lasciare l’UE per resuscitare la perduta potenza imperiale, proiettandosi nella cosiddetta “anglosfera” e liberandola dagli obblighi dell’unione doganale e del mercato comune. La Brexit è stata vista anche (forse soprattutto) come un modo per ricompattare il Regno Unito, per ripristinare una frontiera che costringa all’interno Scozzesi e Nordirlandesi, per stroncarne le velleità indipendentiste, e per ridimensionare le ambizioni cosmopolite di Londra. Infine, una delle motivazioni non esplicitamente dichiarate è probabilmente che la Gran Bretagna vede con antipatia la centralità della Germania nell’UE, e si chiede se abbia vinto la guerra per permettere ai tedeschi di vincere la pace.

L’idea di riportare in vita il Regno Unito del XIX secolo è insensata, ma seduce molti deputati conservatori e sostenitori del Leave. «Make Britain Great again» è uno slogan carico di fascino, perché attinge alla nostalgia dell’impero e alla xenofobia che plasmava la mentalità imperiale britannica. Per gli Inglesi è difficile convincersi di non essere più una potenza globale e ritagliarsi un ruolo negli affari mondiali in linea con la taglia attuale del Regno Unito. Tuttavia lo slogan principale dei leavers – «Take back control» – ha funzionato in Inghilterra e in Galles, non in Irlanda del Nord e in Scozia.

L’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona

Poiché il referendum aveva solo valore consultivo e l’adesione all’UE era stata a suo tempo deliberata dal Parlamento, spettava a quest’ultimo rendere effettiva la volontà di deliberare e attuare la Brexit, attraverso l’approvazione di una specifica legge. In seguito dell’approvazione da parte del Parlamento britannico di una legge nota come European Union (Notification of Withdrawal) Act 2017, il 29 marzo 2017 il primo ministro Theresa May presentò al presidente del Consiglio europeo, una lettera di notifica per l’uscita del paese dall’UE appellandosi all’articolo 50 del Trattato di Lisbona sull’Unione europea.

Le elezioni anticipate in Gran Bretagna

Theresa May cercò di rafforzare la propria posizione ottenendo un maggiore consenso mediante le elezioni anticipate, che si svolsero l’8 giugno 2017. Il risultato delle elezioni, tuttavia, non le consentì di avere in Parlamento una solida maggioranza, anche per le divisioni interne al Partito conservatore. Comunque, i negoziati per l’attuazione della Brexit ebbero inizio a Bruxelles il 19 giugno 2017, con l’obiettivo di giungere a un accordo che attenuasse le ricadute negative dell’uscita dall’UE, a partire dalla definizione delle modalità d’uscita della Gran Bretagna. Il 19 marzo 2018 le parti concordarono un piano di transizione di 21 mesi per evitare una hard Brexit (“no deal”), un salvagente nel caso in cui non si arrivasse ad un accordo formale prima del 29 marzo 2019 (la data inizialmente prevista per l’uscita). Il “No Deal”, ovvero la Brexit senza accordo, comporterebbe infatti un’uscita definitiva della Gran Bretagna dall’UE e dai trattati comunitari. A quel punto, ristabilite dogane, frontiere e dazi, il Governo britannico dovrebbe negoziare con i singoli Stati nuovi accordi.

Il “voto significativo” della Camera dei Comuni

A seguito del Royal Assent ricevuto in data 26 giugno 2018, l’European Union (Withdrawal) Bill approvato dal Parlamento britannico il 21 giugno 2018 divenne legge con il nome di European Union (Withdrawal) Act 2018. L’articolo 13 della legge prevedeva che, prima di varare le misure per il ritiro dall’Unione, il Governo sottoponesse ad un meaningful vote (“voto significativo”) del Parlamento l’Accordo raggiunto con l’Unione europea.

Il Withdrawal Agreement (accordo di ritiro)

Dopo lunghe trattative il 13 novembre 2018 la May e la UE raggiunsero un primo accordo su come attuare la Brexit che riguardava questioni economiche, diritti dei cittadini, accordi sulle frontiere e su come risolvere eventuali controversie, stabilendo anche il “prezzo” dell’uscita per la Gran Bretagna. L’accordo prevedeva la possibilità di prolungare oltre al 31 dicembre 2020 il regime transitorio durante il quale la Gran Bretagna resterà un Paese dell’UE da tutti i punti di vita (oneri inclusi), ma non potrà essere rappresentata negli organi decisionali dell’Unione. L’accordo era accompagnato da una “dichiarazione politica” non vincolante, contenente alcune linee guida per la seconda fase dei negoziati, dopo aver definito le modalità di attuazione della Brexit.

Il backstop

L’accordo conteneva diversi allegati, il principale dei quali riguardava il confine tra le due Irlande per  evitare il rischio di ripristinare un confine fisico tra l’Ulster e la Repubblica d’Irlanda. Questo potrebbe riaccendere le tensioni che hanno tormentato per decenni l’isola e che l’integrazione europea era riuscita in gran parte a sanare. Nell’accordo della May era previsto un backstop, ovvero una “rete di protezione”, qualora non si giungesse a un accordo tra UE e Gran Bretagna al termine del periodo di transizione, per impedire il ritorno di un confine fisico tra EIRE e Ulster, mantenendo di fatto quest’ultima nel mercato comune.

Le bocciature dell’accordo May-UE

All’inizio del 2019 l’ipotesi di accordo stipulata il 13 novembre 2018 da Theresa May con Jean-Claude Juncker e Donald Tusk fu portata all’esame del Parlamento, ma per tre volte fu bocciata dalla Camera dei Comuni: il 15 gennaio, il 12 marzo 2019 e il 29 marzo. A quel punto, Theresa May incontrò Presidenti e Primi Ministri dei 27 Paesi dell’Ue e il 9 aprile ottenne da parte del Consiglio Europeo la fissazione di una nuova scadenza per il 31 ottobre 2019. La May, dopo aver cercato inutilmente un’intesa con i laburisti di Jeremy Corbyn per far approvare l’accordo, si arrese e il 7 giugno 2019 annunciò le proprie dimissioni, effettive dal 24 luglio. Al suo posto Boris Johnson è divenuto leader del partito conservatore e nuovo Primo Ministro.

Boris Johnson premier

Johnson, rigettando l’accordo raggiunto dalla May, promise di finalizzare la Brexit “ad ogni costo” entro il 31 ottobre 2019. Insediatosi come Primo Ministro il 24 luglio 2019, per perseguire lo scopo cambiò radicalmente la composizione del governo e organizzò una task-force di ministri, guidata da Michael Gove, con il compito di pianificare la Brexit in caso di No Deal.

Il nuovo Primo ministro è poi riuscito a negoziare un nuovo accordo con l’UE, mentre i termini della Brexit sono stati rinviati ancora dal 31 ottobre 2018 al 31 gennaio 2019. Boris Johnson era intenzionato a procedere in ogni caso, anche dopo lo scacco del voto contrario in Parlamento, ventilando la possibilità di una hard Brexit. Il Parlamento ha bloccato anche l’accordo raggiunto da Johnson, che ha così deciso di convocare nuove elezioni politiche per il 12 dicembre 2019.

L’accordo Johnson

BrexitL’intesa raggiunta da Johnson lascia inalterati tutti gli altri punti dell’accordo di Theresa May del 2018: il “costo del divorzio” per il Regno Unito (circa 45 miliardi di euro da versare nelle casse dell’Unione europea per impegni già presi); il periodo di transizione (fino al 31 dicembre 2020 tutte le normative Ue rimarranno valide nel Regno Unito); le regole che si applicheranno ai cittadini UE residenti nel Regno Unito e ai cittadini britannici residenti in UE a Brexit avvenuta.

Il nuovo accordo apporta modifiche di rilievo a quello di Theresa May soltanto nella parte che riguarda l’Irlanda del Nord e il futuro dei rapporti tra Ue e UK. L’accordo May parlava di una relazione commerciale “più vicina possibile” tra Londra e Bruxelles, che in pratica si traduceva in una sostanziale permanenza sine die del Regno Unito in una unione doganale con l’Ue, a meno che nel frattempo un altro accordo non fosse stato trovato. Ciò avrebbe limitato notevolmente gli spazi di manovra di Londra nel fare accordi commerciali con paesi fuori dall’Ue.

Con il nuovo accordo il Regno Unito esce dall’unione doganale e quindi potrà concludere liberamente accordi commerciali con Paesi terzi. Una Dichiarazione politica si limita ad anticipare la negoziazione di un trattato di libero scambio tra le due parti, ma il grado di integrazione tra il mercato britannico e il Mercato Unico europeo sarà molto minore.

Sulla spinosa questione dell’Irlanda del Nord l’accordo di Theresa May evitava la creazione di una frontiera fisica tra i due territori irlandesi. Per ottenere questo obiettivo prevedeva che l’intera Gran Bretagna restasse di fatto nell’unione doganale con l’UE. Applicando sostanzialmente gli stessi dazi e la stessa regolamentazione dell’Ue in tutto il Regno Unito rendeva superflui i controlli doganali sia al confine tra le due parti dell’Irlanda sia nel mare d’Irlanda.

Anche l’accordo raggiunto da Johnson permetterà di non avere un confine fisico tra le due parti dell’isola d’Irlanda: l’Irlanda del Nord applicherà i dazi e la regolamentazione europea sul commercio dei beni, pur rimanendo nell’unione doganale del Regno Unito. Confine fisico e dogana vengono previsti però in prossimità del mare d’Irlanda, tra Gran Bretagna e Irlanda.

Su tutti i prodotti in entrata nell’Irlanda del Nord sarà applicata la regolamentazione dell’UE. Quelli destinati ad attraversare il confine con la Repubblica d’Irlanda (entrando così all’interno del Mercato Unico europeo) saranno soggetti ai dazi europei, mentre su quelli destinati alla sola Irlanda del Nord si potranno applicare i dazi del Regno Unito. In questo modo si garantisce che – almeno in parte – l’Irlanda del Nord rimanga nella stessa unione doganale del Regno Unito.

Il nuovo accordo di Boris Johnson prevede che il parlamento dell’Irlanda del Nord si pronunci in merito al mantenimento dell’accordo quattro anni dopo un periodo di transizione (ovvero verso la fine del 2024). In caso di voto negativo, Londra e Bruxelles avrebbero due anni di tempo per decidere cosa fare.

Le elezioni inglesi di dicembre

Boris Johnson ha ottenuto una larga vittoria alle elezioni parlamentari inglesi che si sono tenute il 12 dicembre 2019, battendo il Partito Laburista di Jeremy Corbyn, con ben il 43% dei voti. I conservatori si sono aggiudicati così 363 seggi, mentre la maggioranza del Parlamento ne richiede 326.

In Scozia, tuttavia, il risultato dello Scottish national party ha superato le aspettative e potrebbe esserci una nuova mobilitazione per un referendum sull’indipendenza. Nel Nord dell’Inghilterra il Partito conservatore ha sottratto diversi seggi ai laburisti in aree tradizionalmente operaie e di sinistra. In Galles Il Labour Party perde sei seggi a vantaggio dei conservatori, mentre tengono i nazionalisti del Plaid Cymru. In Irlanda del Nord il Partito unionista democratico perde due seggi, uno a favore dello Sinn féin.

L’approvazione dell’Accordo sull’uscita dall’Ue

Il 20 dicembre 2019, con una maggioranza schiacciante di 358 contro 234 voti, la Camera dei Comuni ha approvato l’accordo di Boris Johnson sull’uscita dall’Ue. Appena il Parlamento tornerà a riunirsi con l’anno nuovo (dal 7 gennaio prossimo), basterà soltanto una terza lettura, il passaggio alla Camera dei Lord e il timbro regale della Regina perché la Brexit diventi ufficiale e irreversibile entro il 31 gennaio 2020.

A quel punto partirà un anno di transizione in cui il Regno Unito formalmente non farà più parte dell’Unione Europea, ma rimarranno ancora in vigore i trattati comunitari per consentire ai negoziatori di stilare nuovi accordi fra le parti. Il Parlamento Europeo dovrà nominare un gruppo di negoziatori col mandato di trovare un nuovo accordo commerciale con il Regno Unito. Anche se Johnson è ottimista, è possibile che un solo anno non sia sufficiente e che si corra il rischio di arrivare al 31 gennaio 2021 senza un accordo. Resta comunque la possibilità per il Regno Unito di chiedere un’estensione del periodo di transizione. Johnson ha comunque escluso l’ipotesi di ulteriori rinvii e, nel caso di mancato accordo, ritornerebbe plausibile lo scenario del temuto no deal e di una hard Brexit.

Le possibili conseguenze della Brexit

Nel 2014 in Scozia, due anni prima del referendum per la Brexit, si svolse un referendum sull’indipendenza, in cui prevalsero di stretta misura i “no” per il timore che l’indipendenza comportasse un’uscita dall’Unione europea. Non a caso, quindi, gli elettori scozzesi nel referendum del 2016 votarono a grande maggioranza (62%) a favore del Remain. Pertanto ora la possibilità di una scissione potrebbe riavvicinarsi, infatti subito dopo i risultati elettorali del 12 dicembre la leader dello Scottish national party (Snp) Nicola Sturgeon, primo Ministro scozzese, ha chiesto un nuovo referendum sull’indipendenza. In questa situazione probabilmente saranno cruciali i risultati delle elezioni per il parlamento scozzese in programma nel 2020 e il raggiungimento o meno di un accordo tra la Gran Bretagna e l’UE entro i termini previsti. Anche in Irlanda del Nord nel 2016 prevalse al referendum il Remain. Inoltre, le elezioni del 12 dicembre 2019 hanno visto un indebolimento del DUP e una crescita dello Sinn féin. Per la prima volta la regione ha eletto più deputati nazionalisti irlandesi che fedeli a Londra. Anche in Ulster, quindi, non è improbabile che si riaccendano le tensioni e le spinte in direzione della Repubblica d’Irlanda, soprattutto se si creasse un nuovo confine fisico tra le due aree dell’Irlanda. Tale eventualità avrebbe una grave ricaduta economica per quel che riguarda i lavoratori frontalieri che quotidianamente varcano il confine e, in particolar modo, ne risulterebbe danneggiata Dublino, esportatore netto di merci verso la Gran Bretagna. D’altra parte è difficile credere che l’integrazione di fatto dell’Ulster nell’Unione Europea sia un’opzione facilmente accettabile dagli esponenti più intransigenti della Brexit dura. Di fatto la Brexit è un fenomeno inglese, non britannico. Attinge alla nostalgia per la potenza perduta. Sentimento che rischia però di frantumare anche la prima costruzione imperiale: il Regno Unito.

Per quel che riguarda la sua collocazione internazionale, il Regno Unito dovrà ricostruire dalle fondamenta i rapporti con tutti i paesi europei. Londra sarà costretta a cercare un paradossale riavvicinamento all’Unione Europea o a divenire molto più dipendente che in passato dagli Stati Uniti. Presumibilmente si rafforzerà la relazione speciale con gli Stati Uniti, ma non è detto che questo possa bastare, in un mondo ogni giorno più globalizzato, in cui la competizione avviene tra potenze di stazza continentale. Muoversi seguendo un corso d’azione geopolitico autonomo in un mondo sempre più definito in grandi blocchi regionali e dove infuriano le guerre commerciali va al di là delle possibilità della Gran Bretagna. I brexiter propongono come alternativa l’Anglosfera, ma è improbabile che quest’ultima possa divenire un blocco geopolitico coeso.

Il principale problema derivante dalla Brexit per l’Unione Europea è costituito dall’effetto valanga che l’uscita di un suo stato membro potrebbe provocare. Per ora appare improbabile che un altro paese dell’Unione richieda di uscire, tuttavia il crescente consenso dei partiti euroscettici potrebbe essere alimentato dall’effetto Brexit. Inoltre, per l’Europa verrà meno uno dei maggiori membri sia per importanza internazionale che economica. È la prima volta che un paese recede dall’Unione Europea, perciò non sono chiare tutte le dinamiche che ne possano scaturire, in particolare per le politiche di ingresso e di residenza dei cittadini europei nel Regno Unito e dei britannici nei Paesi del continente.

Fonti

https://www.consilium.europa.eu/it/policies/eu-uk-after-referendum/#

https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/brexit-laccordo-di-johnson-ecco-cosa-cambia-24198

http://www.limesonline.com/sommari-rivista/la-questione-britannica

 

 

Print Friendly, PDF & Email