Marx, Engels Comunismo e proletariato

Karl Marx

Marx, Engels – Comunismo, proletariato e lotta di classe

Marx ed Engels indicano nei comunisti l’avanguardia cosciente del proletariato, capace di tracciare la strada per una radicale trasformazione del sistema economico capitalistico e per costruire una società più giusta.


Dal Manifesto del Partito comunista (1848)

Che relazione passa tra i comunisti e i proletari in generale? I comunisti non costituiscono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai. […]

I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solamente per il fatto che da un lato, nelle varie lotte nazionali dei proletari, essi mettono in rilievo e fanno valere quegli interessi comuni dell’intiero proletariato che sono indipendenti dalla nazionalità; d’altro lato per il fatto che, nei vari stadi di sviluppo che la lotta tra proletariato e borghesia va attraversando, rappresentano sempre l’interesse del movimento complessivo.

In pratica, dunque, i comunisti sono la parte più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, quella che sempre spinge avanti; dal punto di vista della teoria, essi hanno un vantaggio sulla restante massa del proletariato pel fatto che conoscono le condizioni, l’andamento e i risultati generali del movimento proletario.

Lo scopo immediato dei comunisti è quello stesso degli altri partiti proletari: formazione del proletariato in classe, rovesciamento del dominio borghese, conquista del potere politico da parte del proletariato. […]

Ciò che distingue il comunismo non è l’abolizione della proprietà in generale, bensì l’abolizione della proprietà borghese. Ma la moderna proprietà privata borghese è l’ultima e la più perfetta espressione di quella produzione e appropriazione dei prodotti, che poggia sugli antagonismi di classe, sullo sfruttamento degli uni per opera degli altri.

In questo senso i comunisti possono riassumere la loro dottrina in quest’unica espressione: abolizione della proprietà privata.

È stato mosso rimprovero a noi comunisti di voler abolire la proprietà acquistata col lavoro personale, frutto del lavoro di ciascuno; quella proprietà che sarebbe il fondamento di ogni libertà, di ogni attività e di ogni indipendenza personali.

Proprietà acquistata, guadagnata, frutto del proprio lavoro! Parlate voi forse della proprietà del piccolo borghese o del piccolo agricoltore, che precedette la proprietà borghese? Noi non abbiamo bisogno di abolirla; l’ha già abolita e la abolisce quotidianamente lo sviluppo dell’industria.

Oppure parlate voi della moderna proprietà borghese privata? Ma che forse il lavoro salariato, il lavoro del proletario, crea a quest’ultimo una proprietà? In nessun modo. Esso crea il capitale, cioè crea la proprietà che sfrutta il lavoro salariato e che non può aumentare se non a condizione di generare nuovo lavoro salariato per nuovamente sfruttarlo. La proprietà nella sua forma odierna è fondata sull’antagonismo fra capitale e lavoro salariato. Esaminiamo i due termini di questo antagonismo.

Essere capitalista non vuol dire soltanto occupare nella produzione una posizione puramente personale, ma una posizione sociale. Il capitale è un prodotto comune e non può essere messo in moto se non dall’attività comune di molti membri della società, anzi, in ultima istanza, soltanto dall’attività comune di tutti i membri della società.

Il capitale, dunque, non è una potenza personale; esso è una potenza sociale.

Se dunque il capitale viene trasformato in proprietà comune, appartenente a tutti i membri della società, ciò non vuol dire che si trasformi una proprietà personale in proprietà sociale. Si trasforma soltanto il carattere sociale della proprietà. Esso perde il suo carattere di classe.

Veniamo al lavoro salariato.

Il prezzo medio del lavoro salariato è il minimo del salario, ossia la somma dei mezzi di sussistenza necessari a mantenere in vita l’operaio in quanto operaio. Quello dunque che l’operaio salariato si appropria con la sua attività, gli basta soltanto per riprodurre la sua nuda esistenza. Noi non vogliamo punto abolire questa appropriazione personale dei prodotti del lavoro necessari per la riproduzione della vita immediata, appropriazione la quale non lascia alcun profitto netto, che possa dare un potere sul lavoro altrui. Noi vogliamo soltanto abolire il miserabile carattere di questa appropriazione, per cui l’operaio esiste soltanto per accrescere il capitale e vive quel tanto che è richiesto dall’interesse della classe dominante. […]

E la borghesia chiama l’abolizione di questo stato di cose abolizione della personalità e della libertà! E ha ragione. Perché si tratta, effettivamente, di abolire la personalità, l’indipendenza e la libertà del borghese! […]

Il comunismo non toglie a nessuno la facoltà di appropriarsi dei prodotti sociali; toglie soltanto la facoltà di valersi di tale appropriazione per asservire lavoro altrui. […]

Abolizione della famiglia! Persino i più avanzati fra i radicali si scandalizzano di così ignominiosa intenzione dei comunisti.

Su che cosa si basa la famiglia odierna, la famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno privato. Nel suo pieno sviluppo la famiglia odierna esiste soltanto per la borghesia; ma essa trova il suo complemento nella forzata mancanza di famiglia dei proletari e nella prostituzione pubblica.

La famiglia del borghese cadrà naturalmente col venir meno di questo suo complemento, e ambedue scompariranno con lo sparire del capitale.

Ci rimproverate voi di voler abolire lo sfruttamento dei figli da parte dei loro genitori? Noi questo delitto lo confessiamo.

Ma voi dite che sostituendo l’educazione sociale all’educazione domestica noi sopprimiamo i legami più intimi. […]

Le declamazioni borghesi sulla famiglia e sull’educazione, sugli intimi rapporti fra i genitori e i figli diventano tanto più nauseanti, quanto più, in conseguenza della grande industria, viene spezzato per i proletari ogni legame di famiglia, e i fanciulli vengono trasformati in semplici articoli di commercio e strumenti di lavoro. […]

Si rimprovera inoltre ai comunisti di voler sopprimere la patria, la nazionalità.

Gli operai non hanno patria. Non si può toglier loro ciò che non hanno. Ma poiché il proletariato deve conquistarsi prima il dominio politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, è anch’esso nazionale, benché certo non nel senso della borghesia.

L’isolamento e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno via via scomparendo con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e con le condizioni di vita ad essa rispondenti.

Il dominio del proletariato li farà scomparire ancora di più. L’azione unita almeno nei paesi civili è una delle prime condizioni della sua emancipazione.

A misura che viene abolito lo sfruttamento di un individuo per opera di un altro, viene abolito lo sfruttamento di una nazione per opera di un’altra.

Con lo sparire dell’antagonismo fra le classi nell’interno della nazione scompare l’ostilità fra le nazioni stesse. […]

Il proletariato si servirà della sua supremazia politica per strappare alla borghesia, a poco a poco, tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, vale a dire del proletariato stesso organizzato come classe dominante, e per aumentare, con la massima rapidità possibile, la massa delle forze produttive. […]

Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe subentra un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti.

K. Marx – F. Engels, Il manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1973.

 

 

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