Michail Bakunin – La Comune dei lavoratori e lo stato.

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Michail Bakunin – La Comune dei lavoratori e lo stato.

La Comune parigina, oltre a rappresentare un esaltante momento di presa di coscienza da parte del proletariato urbano, offrì numerosi spunti di riflessione per l’intero movimento operaio. All’interno di tale movimento, si delinearono la linea socialista prospettata da Marx e la linea anarchica ispirata da Bakunin.

Quest’ultima, finalizzata anch’essa all’abbattimento del capitalismo, differiva dalla posizione marxista anzitutto per i mezzi attraverso i quali realizzare il fine ultimo: non più i proletari urbani, ma l’intera classe degli esclusi dal ciclo capitalistico. La lotta, inoltre, non doveva condurre a una dittatura, fonte anch’essa di oppressione bensì a una federazione generale di popolo realizzata a partire dalla dimensione locale. Queste divergenze furono alla base della rottura che portò allo scioglimento della Prima internazionale.


Il socialismo rivoluzionario ha tentato una prima manifestazione, magnifica e pratica nella Comune di Parigi.

Io sono un partigiano della Comune di Parigi, che per essere stata massacrata, soffocata nel sangue, dal boia della reazione monarchica e clericale, non ne è diventata che più vivace, più possente nella immaginazione e nel cuore del proletariato d’Europa, e soprattutto ne sono il partigiano perché essa è stata una audace ben caratteristica negazione dello Stato. […]

Io so che molti socialisti, assai conseguenti nella loro teoria, rimproverano ai nostri amici di Parigi di non essersi dimostrati sufficientemente socialisti nella loro pratica rivoluzionaria. […] [I socialisti] furono uomini il cui zelo ardente, la cui devozione e buona fede non hanno mai potuto essere messi in dubbio da chiunque li abbia avvicinati. Ma precisamente perché furono uomini di buona fede, erano pieni di sfiducia verso se stessi, in cospetto all’opera immensa alla quale avevano dedicato il loro pensiero e la loro vita: essi si attribuivano così poco valore!

Avevano d’altronde questa convinzione: che nella rivoluzione sociale, diametralmente opposta, in questo come nel resto, alla rivoluzione politica, l’azione degli individui sia pressoché nulla, e che l’azione delle masse debba essere tutto. Tutto ciò che gli individui possono fare è di elaborare, di chiarire e di propagare le idee corrispondenti all’istinto popolare, e, di più, di contribuire coi loro sforzi incessanti all’organizzazione rivoluzionaria della potenza naturale delle masse. Ma nulla oltre a ciò; tutto il resto non può e non deve essere fatto che dal popolo stesso altrimenti si arriverebbe alla dittatura politica, cioè alla ricostituzione dello Stato, dei privilegi, delle ineguaglianze, di tutte le oppressioni dello Stato, e per una via indiretta ma logica, si arriverebbe alla restaurazione della schiavitù politica, sociale ed economica delle masse popolari. […]

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Contrariamente a questo pensiero dei comunisti autoritari, secondo me tutt’affatto erroneo, che una rivoluzione sociale possa essere decretata e organizzata sia da una dittatura, sia da un’assemblea costituente, risultante d’una rivoluzione politica, i nostri amici socialisti di Parigi hanno pensato ch’essa non poteva essere fatta e condotta al suo completo sviluppo che mediante l’azione spontanea e continuata delle masse, dei gruppi e delle associazioni popolari.

I nostri amici di Parigi hanno avuto mille volte ragione. Poiché, effettivamente, quale è la testa così geniale, o – se si vuol parlare d’una dittatura collettiva, anche se esercitata da parecchie centinaia d’individui dotati di facoltà superiori – quali sono i cervelli tanto potenti, tanto vasti, per abbracciare l’infinita molteplicità e diversità degl’interessi reali, delle aspirazioni delle volontà, dei bisogni di cui la somma costituisce la volontà di un popolo, capaci di creare una organizzazione sociale che possa soddisfare tutti? Questa organizzazione non sarà mai altro che un letto di Procuste, sulla quale la violenza più o meno accentuata dello Stato forzerà la disgraziata società a spegnersi. È ciò che è avvenuto sempre fino a ora, ed è precisamente a questo sistema antico dell’organizzazione obbligatoria che la rivoluzione sociale deve porre un termine, rendendo la loro completa libertà alle masse, ai gruppi, ai comuni, alle associazioni, agli individui medesimi, distruggendo una volta per sempre la causa storica di tutte le violenze: la potenza e l’esistenza stessa dello Stato.

Questo deve trascinar nella sua caduta tutte le iniquità del diritto giuridico con tutte le menzogne dei culti diversi, poiché questo diritto e questi culti non sono mai stati altro che la consacrazione obbligata, tanto ideale quanto reale, di tutte le violenze rappresentate, garantite e privilegiate dallo Stato. […]

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Lo Stato è come un grande macello e come un immenso cimitero, ove generosamente, serenamente vengono a lasciarsi immolare e seppellire tutte le aspirazioni reali, tutte le forze vive di un paese. E siccome nessuna astrazione esiste mai da se stessa né per se stessa, siccome essa non ha né gambe per camminare, né braccia per creare, né uno stomaco per digerire questa massa di vittime che le vien data a ingoiare, è chiaro che l’astrazione religiosa o celeste, Dio, rappresenti in realtà gli interessi molto positivi, molto reali di una casta privilegiata: il clero – così come è chiaro che il suo termine di complemento terrestre, l’astrazione politica, lo Stato, rappresenti gli interessi non meno positivi e reali della classe oggi principalmente se non esclusivamente sfruttatrice, che d’altronde tende a conglobare tutte le altre: la borghesia. […]

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L’abolizione della Chiesa e dello Stato deve essere la prima e indispensabile condizione della liberazione reale della società; soltanto dopo ciò essa potrà e dovrà organizzarsi in un’altra maniera ma non dall’alto in basso e dopo un piano ideato o sognato da qualche saggio o da qualche sapiente, oppure per decreti lanciati da forze dittatoriali, oppure da un’assemblea nazionale eletta a suffragio universale. […]

La futura organizzazione sociale, deve essere fatta dal basso in alto, per mezzo della libera associazione e della federazione dei lavoratori; prima nelle associazioni, poi nei comuni, nelle regioni, nelle nazioni, e, finalmente, in una grande federazione internazionale e universale. Allora soltanto si realizzerà il vero e vivificante ordine della libertà e della felicità generali, quell’ordine che, lontano dal rinnegare, afferma al contrario e accomuna gli interessi degli individui e della società. […]

Ma se i metafisici, soprattutto coloro che credono nella immortalità dell’anima, affermano che gli uomini al di fuori della società sono degli esseri liberi, noi inevitabilmente arriviamo a questa conclusione: che gli uomini non possono unirsi in società che alla condizione di rinnegare la loro libertà, e la loro indipendenza naturale, e di sacrificare i propri interessi personali e locali. Una tale rinuncia e un tale sacrificio di se stesso deve perciò essere tanto più necessario quanto la società è più numerosa e la sua organizzazione più complessa. In tal caso, lo Stato è l’espressione di tutti i sacrifizi individuali. Si comprende che esistendo sotto una tale forma astratta e contemporaneamente violenta, esso continua a impacciare maggiormente la libertà individuale, in nome di quella menzogna che si chiama “felicità pubblica”, benché evidentemente non rappresenti che l’interesse esclusivo della classe dominante.

Lo Stato, in questo modo, ci appare quale inevitabile negazione e annichilimento di ogni libertà, di ogni interesse, tanto individuale quanto generale. Qui si vede che nei sistemi metafisici e teologici tutto si unisce e si spiega da se stesso. Ecco perché i difensori logici di questi sistemi possono e debbono anche, con coscienza tranquilla, continuare a sfruttare le masse popolari per mezzo della Chiesa e dello Stato; riempiendo le loro tasche e saziando tutti i loro desideri, essi possono allo stesso tempo consolarsi al pensiero di affaticarsi per la gloria di Dio, per la vittoria della civiltà e per l’eterna felicità del proletariato. Ma noialtri, che non crediamo né in Dio, né nell’immortalità dell’anima, né nella stessa libertà della volontà, noi affermiamo che la libertà deve essere compresa, nella sua più completa e più vasta accezione, come fine del progresso storico dell’umanità.

M. Bakunin, La Comune e lo Stato, Samonà e Savelli, Roma 1970, pp. 53-67.

 

 

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