Sinistra storica e crisi di fine ‘800.

CrispiSinistra storica e crisi di fine ‘800.

 

La Sinistra al governo

Un parziale ricambio nella classe dirigente avvenne con le elezioni del 1876, vinte dalla cosiddetta Sinistra storica.

Si trattava di uno schieramento di notabili borghesi meno conservatore della Destra, che sosteneva la necessità di moderate riforme e di un intervento dello Stato in campo economico e sociale. Il programma dello schieramento di Sinistra, guidato da Agostino Depretis, prevedeva l’allargamento del diritto di voto, l’estensione dell’istruzione, l’introduzione di forme di decentramento.

I primi governi della Sinistra, guidati da Agostino Depretis, introdussero l’istruzione elementare obbligatoria dai sei ai nove anni (legge Coppino). Con la riforma elettorale del 1882 la Sinistra fece approvare un parziale allargamento del corpo elettorale, che fece salire da 600.000 a due milioni circa il numero degli italiani aventi diritto al voto. Per realizzare il programma, in occasione delle elezioni del 1882, Depretis varò un accordo con la Destra di Minghetti che puntò a costituire una grande maggioranza di centro, da cui rimasero escluse le ali estreme dello schieramento politico. Questa prassi divenne presto nota col nome di “trasformismo”.

Francesco Crispi

Dal 1887 al 1896, salvo un’interruzione di due anni, fu presidente del Consiglio Francesco Crispi, un ex-democratico protagonista del Risorgimento, che non nascose le sue simpatie per il conservatorismo autoritario ed efficientista del cancelliere tedesco Bismarck (“cancelliere di ferro”). In politica interna egli cercò di rafforzare l’autorità dello Stato, con la decisa repressione dei conflitti sociali. Di fronte a un forte malcontento popolare in Lunigiana e al sorgere del movimento dei Fasci dei Lavoratori in Sicilia, egli proclamò lo stato d’assedio e varò una legislazione antisocialista. Crispi realizzò al tempo stesso un’opera di rinnovamento con il varo del codice sanitario, della riforma degli enti locali e del nuovo codice penale(codice Zanardelli, 1890). In politica estera Crispi rinnovò la Triplice alleanza con Austria e Germania e mirò a un’espansione coloniale dell’Italia in Africa orientale, che però si scontrò con la forte resistenza etiope: l’esercito italiano fu pesantemente sconfitto ad Adua (1896). La reazione della pubblica opinione fu vivissima: Crispi dovette dimettersi e il nuovo primo ministro, Antonio Di Rudinì, fu costretto a firmare la pace con l’Etiopia.

La crisi di fine secolo

Di fronte alla crisi politica e sociale di fine secolo la Destra liberale propose soluzioni autoritarie. Il marchese Di Rudinì cercò di frenare i moti di piazza attraverso lo stato d’assedio: a Milano il generale Bava Beccaris fece sparare sulla folla che reclamava pane e lavoro, provocando una strage. Luigi Pelloux, successore di Di Rudinì, cercò di imporre al parlamento il varo di leggi eccezionali limitative delle libertà. La situazione italiana si trovò allora a un passaggio difficile. C’era il rischio che prevalesse un governo reazionario. L’attentato in cui morì il re Umberto I, compiuto a Monza nel 1900 da un anarchico, rese più tesa la situazione. D’altra parte diversi uomini della borghesia industriale e i partiti di sinistra (socialisti, repubblicani e radicali) puntavano invece a una svolta democratica. Nel 1901 il nuovo re Vittorio Emanuele III affidò la carica di primo ministro a Giuseppe Zanardelli, un liberale che si era pronunciato contro la repressione, così come Giovanni Giolitti, ministro degli Interni, che divenne primo ministro nel 1903 e mantenne la massima carica politica fino al 1913, salvo brevi interruzioni. Giolitti avviò una linea di confronto con il movimento operaio e socialista, con l’obiettivo di fare prevalere al suo interno le componenti più moderate.

Lo sviluppo industriale

Negli ultimi anni dell’Ottocento l’Italia fu afflitta da un’emigrazione di massa, nel corso della quale milioni di contadini si trasferirono nelle Americhe e in altri stati europei. In quel periodo l’Italia fece anche un decisivo passo in avanti, avvicinandosi ai paesi più moderni. Ebbe inizio un ciclo di rapida industrializzazione, favorita dall’adozione di misure protezionistiche e dai finanziamenti concessi dallo Stato e da alcune importanti banche (Banca Commerciale Italiana, Credito italiano). L’industrializzazione ebbe i suoi punti di forza nella siderurgia (gli operai del settore tra il 1902 e il 1914 aumentarono da 15.000 a 50.000) e nella nuova industria idroelettrica. Quest’ultima sembrava risolvere una delle debolezze dell’Italia, paese privo di materie prime essenziali come il carbone e il ferro. Utilizzando l’acqua dei laghi alpini e dei fiumi fu possibile ottenere energia senza dipendere dall’estero per l’acquisto del carbone: la produzione di energia idroelettrica, tra il 1900 e il 1914, salì da 100 a 4.000 milioni di kWh. L’industria tessile mantenne una posizione di rilievo con prodotti venduti sia sul mercato interno sia su quello internazionale. Anche l’industria meccanica cominciò ad affermarsi nel settore dei trasporti (auto, treni) e delle macchine utensili. Ciononostante l’economia conservava forti squilibri tra il Nord del paese, industrializzato e moderno, e il Sud, arretrato e prevalentemente agricolo.

 

 

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