Una festa favolosa.

palio faenza

Una festa favolosa.

Il palio del santo patrono nella Romagna delle signorie

di Giuseppe Dalmonte

 

“Io non vidi mai in terra nissuna fare quella festa che fa questa” (Leone Cobelli).

Ogni anno, l’ultimo giorno d’aprile, fin dal mattino si udiva suonare le campane a stormo per annunciare la festa del santo protettore della città e invitare tutta la comunità a rendergli omaggio nel tempio a lui dedicato. In breve tempo l’ampia piazza si riempiva di gente festosa che accorreva dalle diverse contrade con stendardi e bandiere delle arti e delle varie associazioni di mestiere, in attesa di accompagnare il signore all’offerta in San Mercuriale.

Ogni anno, nella solenne circostanza, sul palazzo della Signoria sventolavano alcuni stendardi e bandiere a memoria e monito dell’antica alleanza che reggeva la pacifica convivenza cittadina. Sul lato sinistro garriva l’insegna ghibellina con l’aquila nera in campo dorato, donata dall’imperatore Federico II alla comunità forlivese. Sul lato destro invece si agitava nell’aria l’insegna guelfa con le chiavi bianche in campo rosso, concessa da Papa Onorio dopo la conquista della città. Da una parte si ergeva lo stendardo con la croce bianca in campo rosso offerto dal popolo al vecchio Cecco Ordelaffi quando fu fatto capitano a vita, dall’altra dominava il vessillo con mezzo leone verde in campo oro a rappresentare quando Francesco Ordelaffi si era proclamato signore di Forlì.

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Volgendo lo sguardo al balcone signorile che si affaccia sulla piazza, lo spettatore aveva modo di ammirare “un palio di velluto con mostre d’armellini fodrate de rossi de varo, molto bello et notabile”. Tutto a un tratto il brusio della folla era rotto dagli squilli della tromba del banditore comunale che ad alta voce incitava: “All’offerta, o artigiani ”.

Dall’androne principale del palazzo signorile cominciava allora a uscire il corteo composto da eleganti donzelli in abiti di broccato e con grossi doppieri di cera bianca stretti nelle mani. Erano seguiti dai due giovani principi ornati con broccati d’oro e d’argento, accompagnati in processione da uno stuolo di cavalieri, dottori, capitani, prelati e cittadini di alto rango che s’incamminavano verso il sagrato dove li attendeva, con gli altri monaci, l’abate del monastero che stringeva nelle mani la teca d’oro e d’argento contenente la testa del santo patrono.

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Appena l’abate intona il Te Deum, il signore dà inizio alla processione del popolo forlivese che passa prima per Santa Croce, poi per il Borgo grande fino ad arrivare al Ponte del Pane, per rientrare infine sulla piazza grande e accedere al tempio di San Mercuriale, tutto adorno di fiori e di splendidi parati, dove si compie ogni anno l’omaggio solenne al santo patrono con l’offerta dei ceri accompagnata dal canto corale dei salmi e delle litanie. Conclusa la cerimonia religiosa, signori, cavalieri e maggiorenti tornano alle loro dimore, come pure i mercanti e i popolani, per desinare con parenti e famigliari.

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Nelle ore pomeridiane, il visitatore che si era recato per tempo sulla piazza poteva udire suonare a martello la campana del popolo e poco dopo vedere arrivare una decina di cavalli dei vari signori, ben equipaggiati per la corsa del palio, poi con cetre, cembali, pive e altri strumenti, schiere di giovani e di fanciulle che intonavano stornelli e intrecciavano vivaci danze.

Dalle finestre del palazzo si scorgevano gruppi di cavalieri e di capitani in attesa della corsa, mentre da quelle della sede del podestà si affacciavano giovani dame e mogli di dottori e di cittadini. Allo scoccare dell’ora stabilita per il corteo, si vedevano uscire i signori con suntuose vesti dorate di broccato, con perle e collane d’oro al collo, accompagnati da uno stuolo di cavalieri, armigeri, capitani, dottori e cittadini, con abiti di seta, di velluto, di panno rosato o d’oro, che in comitiva e a cavallo si dirigevano al ponte del Ronco per la mossa o partenza della corsa al palio.

Chi preferiva osservare la fase conclusiva della corsa si tratteneva invece alla Porta dei Cotogni, come fa il nostro cronista-cicerone, che si stupisce per la ressa di ben due mila persone assiepate lungo le strade del grosso borgo, e si meraviglia nel vedere il generale desiderio popolare di far baldoria con canti, balli e suoni di arpe, di cetre, di liuti, pive e tamburi, che allietano le case dei parenti e degli amici in questa gaia circostanza. “Io ismemoravo di veder tanto trionfo: certo mi pareva essere in paradiso” chiosa con stupore il cronista rinascimentale.

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Al termine della gara il signore faceva chiamare il vincitore della corsa e gli consegnava solennemente il palio fra il tripudio generale della folla, che inneggiava prima al giovane trionfatore, poi al suono della campana a martello tutto il popolo cominciava a correre e a esultare sulla piazza dietro l’insegna del proprio gonfalone e a inneggiare ripetutamente ai signori della città: “Vivano gli Ordelaffi! Vivano!”.

In questa lieta ricorrenza i quattro gonfalonieri della città: del Ponte del Pane, del Trebbo dei Mozapè, del Ponte dei Cavalieri, del cantone di San Mercuriale, restituivano i vessilli al signore che nominava altri quattro cittadini a questo incarico consegnando loro i gonfaloni per il nuovo anno tra evviva, canti di gioia e scambi di doni per rinsaldare le promesse di fedeltà e lealtà al signore. Infine ogni cittadino schierato sotto il vessillo della propria contrada accompagnava a casa il nuovo gonfaloniere tra balli e canti di gioia echeggianti nella città fino a notte inoltrata.

 

 

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