Fascismo: la politica economica

La politica economica fascista

La prima fase: il liberismo economico.

I primi anni di governo di Mussolini coincisero con una fase di espansione dell’economia mondiale. I progressi dell’Italia furono evidenti: già nel 1922 la produzione industriale aveva raggiunto i livelli del 1913 e l’espansione proseguì almeno fino al 1925.

In questo primo periodo Alberto De Stefani, ministro delle finanze dal 1922 al 1926, attuò una politica economica di tipo liberista, con lo scopo di ridurre il debito pubblico e di rilanciare gli investimenti privati. Essa permise agli industriali e agli agrari di aumentare in modo consistente i loro profitti, a scapito dei salari degli operai.

Nel 1924 fu raggiunto il pareggio del bilancio dello Stato grazie a un forte taglio delle spese militari e a una compressione della spesa pubblica, che tra l’altro comportò il licenziamento di molti dipendenti pubblici.

Il governo approvò una riforma che riduceva la pressione fiscale sui grandi capitali, la privatizzazione dei servizi telefonici e delle Assicurazioni, il salvataggio da parte dello Stato di industrie e banche in crisi, la riduzione dei salari e l’allungamento dell’orario di lavoro a nove ore.

Questa politica favorì in particolare i settori più favoriti furono quelli legati al mercato estero (tessile, agroalimentare, ecc.), l’industria pesante e il settore elettrico, infatti le esportazioni aumentarono notevolmente, grazie anche alla svalutazione monetaria e all’inflazione. Così, nella prima metà degli anni Venti si verificò un forte sviluppo industriale e le maggiori imprese, come la FIAT, la Montecatini (che produceva fertilizzanti) o la SNIA (produttrice di fibre artificiali) aumentarono notevolmente le loro esportazioni.

La seconda fase: “quota 90” e “battaglia del grano”.

In luglio del 1925 De Stefani fu sostituito da Giuseppe Volpi, che abbandonò quasi subito la politica liberoscambista e di svalutazione della lira. Volpi, oltre a introdurre un forte dazio sull’importazione del grano, attuò una forte stabilizzazione monetaria (quota 90) che portò nel giro di alcuni mesi la lira dal livello di cambio di 154 nei confronti della sterlina a 92,45. Questa rivalutazione provocò una crisi di liquidità che mise in difficoltà la imprese, anche se i costi furono scaricati quasi esclusivamente sui salari.

L’obiettivo che il governo fascista si propose fu quello di lanciare un forte segnale di stabilità agli investitori e ai risparmiatori, oltre a ridurre i costi delle importazioni. Tuttavia questa politica determinò una recessione (dal 1927) a causa del crollo delle esportazioni e dalla caduta della domanda interna per consumi privati.

battaglia del grano

 

Nel giugno del 1925 Mussolini lanciò la “battaglia del grano” allo scopo di portare il paese all’autosufficienza alimentare nella produzione di cereali. Per sostenere e far crescere la produzione cerealicola fu reintrodotto un forte dazio sull’importazione di grano e si diedero contributi e premi ai contadini che incrementavano tale coltivazione.

Ampiamente propagandata e sostenuta con incentivi, essa conseguì notevoli risultati, culminati nel 1933 con una produzione che copriva una quota rilevante del fabbisogno nazionale. Essa tuttavia determinò la conversione alla cerealicoltura anche di terreni poco adatti. Di conseguenza, il grano raggiunse sul mercato interno prezzi di molto superiori a quelli del mercato internazionale, penalizzando le classi meno abbienti.

Per ridurre il debito pubblico, nel 1926 il governo decise con un decreto di attuare una conversione forzosa dei titoli di debito pubblico a breve termine (BOT) in titoli a lungo termine attraverso il Prestito del Littorio.

La terza fase: dirigismo e autarchia.

La crisi dell’economia mondiale iniziata nel 1929 accentuò la svolta in direzione protezionista e statalista.

Dirigismo: lo Stato imprenditore

Nel 1933 fu creato l’Iri (Istituto per la Ricostruzione Industriale) che concentrò nelle mani dello Stato i più importanti settori produttivi, come l’industria siderurgica bellica, estrattiva e cantieristica, la quasi totalità delle società di navigazione marittima e le imprese costruttrici di locomotive e locomotori, l’industria automobilistica, l’industria elettrica, la siderurgia civile e le fibre artificiali, cui si aggiunsero le tre principali banche miste (il Credito Italiano, la Banca Commerciale e il Banco di Roma).

Attraverso questo Istituto, cui si affiancò l’Imi, Istituto Mobiliare Italiano, lo Stato si trovò ad assumere la funzione di principale imprenditore italiano e di centro dell’intermediazione finanziaria.

L’autarchia

compra italianoIl protezionismo, che era già stato attuato da Volpi dal 1926, assunse le forme dell’autarchia, avviata ufficialmente nel 1936 con lo scopo di raggiungere l’autosufficienza economica, attraverso il massimo sfruttamento delle risorse interne e la riduzione delle importazioni.

Essa fu realizzata anche in risposta alle sanzioni economiche contro l’Italia deliberate dalla Società delle Nazioni per l’occupazione dell’Etiopia.

La Società delle Nazioni cancellò le sanzioni dopo soli sette mesi, ma il regime proseguì la propria politica autarchica, che fu enfatizzata da una martellante propaganda che mirava a predicare il consumo di beni prodotti in Italia, con materie prime nazionali.

I surrogati

surrogatiL’autarchia riguardò soprattutto alcuni settori strategici: i minerali metallici, le materie tessili, i combustibili. I vestiti italiani furono confezionati con fibra artificiale rayon o con lana sintetica ricavata dal latte, il lanital. Per le scarpe si fece uso del cuoio artificiale (cuoital).

Sarà usata la canapa, il fiocco, il cotone proveniente dalle nuove colonie africane. In campo alimentare il regime propagandò l’adozione di “uno stile di vita frugale e guerriero”, anche attraverso la sostituzione della carne con il pesce e della pasta con il riso.

Proliferarono i surrogati, prodotti autarchici spesso scadenti: al posto del caffè furono utilizzati l’orzo, la ghianda e il fico e il caffè di cicoria.

L’Ufficio propaganda del PNF pubblicò l’opuscolo “Sapersi nutrire”, con consigli alimentari e norme dietetiche, che metteva in guardia dai malanni provocati dall’eccesso di cibo (“Ne uccide più la gola che la spada”, “gli obesi sono infelici”).

L’autarchia linguistica

Il regime estese l’autarchia anche al piano dei costumi e del linguaggio. Come è noto il saluto romano con il braccio teso doveva sostituire la stretta di mano (una mollezza anglosassone), l’uso del “voi” doveva sostituire quello del “lei”.

Anche nella lingua parlata e scritta si procedette a un’epurazione autarchica, che bandiva i termini stranieri. Nel 1940 il fascismo, per legge, considerò anti-italiano l’uso di quasi tutte le parole straniere fino ad allora impiegate quando erano sostituibili con termini italiani. La Regia Accademia d’Italia forniva l’elenco dei forestierismi banditi suggerendo i termini alternativi italiani da usare.

autarchia linguistica

 

Il corporativismo fascista

Secondo la teoria corporativa del Fascismo la crisi generale poteva essere superata soltanto attraverso un rigido controllo della concorrenza, impedendo alle merci estere di penetrare nel mercato interno e sostenendo i comparti produttivi nazionali.

CorporazioniIl corporativismo fascista attribuiva allo Stato il compito di conciliare gli interessi contrapposti di lavoratori e datori di lavoro. Esso trovò concreta attuazione solo nel 1934, quando furono create le corporazioni, 14 enti pubblici che avevano il compito di coordinare la produzione nelle diverse branche dell’economia.

Il sistema corporativo non riuscì però a disciplinare il mercato e a cancellare l’autonomia dei soggetti economici e i primi segni di crescita economica vi furono solo nel 1935, sotto lo stimolo produttivo della guerra d’Etiopia e in coincidenza con la ripresa mondiale.

 

 

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