La grande migrazione europea tra ‘800 e ‘900

La grande migrazione europea tra ‘800 e ‘900

La rivoluzione agraria e la rivoluzione industriale in Gran Bretagna, a partire dalla fine del XVIII secolo, innescarono una forte ondata migratoria interna e internazionale. La privatizzazione delle terre, la meccanizzazione del lavoro nei campi e la nascita del sistema industriale determinarono massicci spostamenti di contadini dalle campagne alle città. Nel corso dell’Ottocento le migrazioni si diressero anche verso i paesi extraeuropei, in particolare gli Stati Uniti.

Per meglio comprendere le specificità delle migrazioni europee ottocentesche, bisogna avere chiari gli elementi sopra indicati, unitamente alla forte crescita demografica europea. La popolazione contadina in crescita, espulsa dalle campagne, fu spinta a emigrare in massa oltreoceano, lungo rotte battute da secoli e divenute assai più veloci grazie alla navigazione a vapore. La forte crescita demografica verificatasi in Europa nel XIX secolo diede luogo a imponenti flussi migratori che dai vari paesi europei si diressero verso l’America, attratti dalla disponibilità di terre, di lavoro e di ricchezze che quei nuovi territori offrivano.

Parallelamente, lo sviluppo industriale di alcuni paesi europei, mentre altri restavano ancora in larga parte basati sull’agricoltura, alimentò correnti migratorie all’interno dello stesso continente europeo. Infine, la globalizzazione tardo-ottocentesca, che coincise con la cosiddetta “età dell’imperialismo” e con la definitiva spartizione coloniale del mondo da parte delle maggiori potenze, innescò in quelle aree lo sviluppo capitalistico e le fece entrare nel mercato mondiale. Di conseguenza anche quei paesi furono coinvolti di flussi migratori.

Mano a mano che l’industria si sviluppò in Europa, la pressione emigratoria diminuì. Verso fine Ottocento, in Gran Bretagna (che più di ogni altro paese aveva esportato emigranti in America fino a metà Ottocento), quando gli occupati nell’industria superarono quelli in agricoltura l’emigrazione perse il suo carattere di massa. Prima della Grande guerra gli occupati nell’industria superarono quelli in agricoltura in Belgio, in Germania e in Svizzera, paesi nei quali l’emigrazione cessò. In Olanda, Svezia, Norvegia lo stesso accadde nel periodo tra le due guerre. Nei paesi mediterranei, come Italia e Spagna, dove l’industrializzazione giunse tardi, nel ventennio successivo alla seconda guerra mondiale, l’emigrazione si esaurì solo negli anni ’70 del Novecento.

Le prima ondate migratoria (1820-1880)

L’Europa della prima metà dell’Ottocento era in pieno sviluppo demografico, tanto che la popolazione europea passò da 187 a 266 milioni di abitanti tra il 1800 e il 1850.

La prima grande ondata migratoria verso gli Stati Uniti attraversò tutto il XIX secolo fino alla metà degli anni ’80. Tra il 1815 e il 1860, gli immigrati verso gli Stati Uniti furono circa 5 milioni. La maggior parte di essi proveniva dall’Europa settentrionale ed era costituita da Inglesi, Irlandesi e Tedeschi. L’economia statunitense si stava sviluppando impetuosamente in tutti i settori e la manodopera di provenienza europea trovava opportunità di lavoro e di salario che in patria erano irraggiungibili. Gli emigranti erano inoltre attratti dalla straordinaria abbondanza di terra che gli Stati Uniti offrivano, e dal loro basso prezzo di vendita. Spesso vi si trasferivano famiglie intere, che cercavano di iniziare così una nuova vita.

La carestia del 1846-1847, causata da una malattia che colpì le coltivazioni di patate, provocò l’emigrazione verso gli Stati Uniti di due milioni e mezzo di Irlandesi. La carestia e il fallimento dei moti del 1848 indussero anche molti Tedeschi ad abbandonare gli stati d’origine. Oltre agli Usa furono destinazioni privilegiate il Canada, l’Australia, l’Africa del Sud. Verso l’America latina, invece, andarono orientandosi Italiani, Francesi e Spagnoli.

Negli anni Sessanta, il flusso migratorio verso gli Stati Uniti diminuì, durante la Guerra di secessione (1861-1865), ma dopo il conflitto esso crebbe notevolmente. La scoperta dell’oro in California (1850), la colonizzazione del West, l’avvio di una rapido processo di industrializzazione attrassero negli Stati Uniti, fra il 1850 e il 1890, circa 13 milioni di stranieri, di cui quasi il 90% provenienti dal vecchio continente.

La comparsa e la rapida estensione della ferrovia e della navigazione a vapore consentirono lo scambio di merci a lunga distanza con costi progressivamente minori. Analogamente, consentirono a un numero crescente di lavoratori di spostarsi in tempi più brevi e con costi notevolmente inferiori. Nel 1840 il flusso migratorio era così redditizio da spingere la compagnia navale Cunard a inaugurare il primo servizio regolare per passeggeri, tra Liverpool e Boston. I Tedeschi, invece, si imbarcavano in primo luogo ad Amburgo, oppure a Le Havre, un porto francese che aveva collegamenti soprattutto con New Orleans.

La seconda ondata (1880-1930)

Nella seconda metà dell’Ottocento, per effetto dello sviluppo delle vie di comunicazione e della disoccupazione di manodopera non qualificata, provocata dallo sviluppo industriale e tecnologico, l’emigrazione europea assunse dimensioni imponenti. A ciò concorse anche l’ulteriore forte crescita demografica, provocata dalla progressiva riduzione della mortalità.

In questo periodo, ai flussi provenienti dall’Europa nordoccidentale si aggiunsero quelli che provenivano dall’Europa meridionale e orientale. Si intensificò così il popolamento degli Stati Uniti, mentre acquistarono progressivamente importanza anche altri sbocchi: Canada, Argentina, Brasile, Australia e Nuova Zelanda.

Il periodo in cui i flussi migratori intercontinentali si fecero più intensi fu a cavallo tra Ottocento e Novecento. Nel periodo che va dal 1880 al 1930 emigrarono nei soli Stati Uniti circa venti milioni di persone. Alla fine dell’Ottocento la provenienza degli immigrati variò sensibilmente: i flussi provenienti da Gran Bretagna e Irlanda, pur consistenti, furono largamente superati da quelli provenienti dall’Italia (circa 4.600.000), dall’Impero Austro-ungarico (circa 4.000.000) e dalla Russia (circa 3.300.000). Anche Germania, Canada e Svezia diedero in questo periodo un contributo notevole.

Il rallentamento delle grandi migrazioni europee

Il periodo che va dalla Prima guerra mondiale, attraverso la grande crisi del 1929, alla Seconda guerra mondiale con l’affermarsi di politiche protezionistiche e autarchiche di chiusura nazionalistica segnarono una netta controtendenza. La Seconda guerra mondiale fu il tragico epilogo di un periodo di crescente chiusura degli stati nazionali all’interno dei propri confini.

Dopo la Prima guerra mondiale gli Stati Uniti assunsero provvedimenti restrittivi miranti a regolare l’afflusso di manodopera straniera. Negli Stati Uniti furono adottati provvedimenti restrittivi, come il Quota Act del 1921, che imposero rigidi limiti, differenziati per le singole etnie, all’ingresso di nuovi immigrati. La crisi del 1929 spinse a un ulteriore inasprimento del controllo alle frontiere.

Di conseguenza, i flussi provenienti dall’Europa, soprattutto dall’Europa meridionale e orientale, si ridussero, dirigendosi verso altre destinazioni dove era ancora relativamente facile l’ingresso: Canada, Argentina e Brasile.

60 milioni di migranti in un secolo

Sebbene sia molto difficile stimare il complesso di popolazione europea emigrata nelle due Americhe e in Australia e Nuova Zelanda, si valuta che dall’inizio del XIX secolo alla metà del XX dall’Europa si siano spostati verso i nuovi continenti circa 60 milioni di persone, anche se va considerato che una parte di essi è in seguito rientrata nei paesi di origine.

Dei 60 milioni di emigrati, oltre 30 si sarebbero recati negli Stati Uniti, 12 in Argentina e Brasile e circa mezzo milione in Nuova Zelanda. Quote minori avrebbero scelto altri paesi delle Americhe (Messico, paesi dell’America centrale, Uruguay), Australia e, in percentuale molto minore, Africa.

Flussi emigratori europei, più difficilmente quantificabili, hanno anche raggiunto alcuni paesi dell’Africa all’epoca soggetti al dominio coloniale europeo (Algeria, Tunisia, Marocco, Libia sulla costa mediterranea, e Unione Sudafricana).

Gli irlandesi

Tra il 1820 e il 1840 arrivarono in America oltre 260.000 Irlandesi. Il numero delle partenze assunse però dimensioni imponenti negli anni 1845-1848, quando una malattia distrusse per tre anni di seguito i raccolti di patate (che in Irlanda erano parte essenziale della produzione agricola), causando una gravissima carestia.

Un milione di persone morì per denutrizione e l’esodo dall’Irlanda fu impressionante: nel 1841 il Paese contava 8.175.000 abitanti, mentre nel 1911 essi si erano ridotti a 4.400.000. Negli anni centrali della carestia le navi erano così cariche e i passeggeri così debilitati che moltissimi emigranti morirono lungo il tragitto o all’arrivo. Nel complesso, emigrarono dall’Irlanda verso gli USA circa 800.000 persone negli anni Quaranta dell’Ottocento e quasi un milione nel decennio successivo.

Gli Irlandesi, che erano cattolici, ebbero maggiori difficoltà a inserirsi in un paese a grande maggioranza protestante. Inizialmente la maggioranza degli Irlandesi trovò occupazione nei settori più umili, dapprima nelle città degli Stati del Nord, in rapida industrializzazione, poi come manovali nel settore delle ferrovie. Finita la guerra di secessione (1861-65), infatti, iniziò l’epoca della conquista del West e della costruzione delle ferrovie trans-continentali. Mentre in California o nella regione delle Montagne rocciose la maggior parte della bassa manovalanza era fornita da operai cinesi, le ferrovie che partivano dall’Est in direzione delle grandi praterie occidentali furono costruite in prevalenza da manodopera irlandese.

Ellis Island

emigrazioneGli Stati Uniti si mobilitarono di fronte all’emergenza immigrazione: Castle Garden, il vecchio porto di sbarco degli immigrati provenienti dai paesi occidentali, fu sostituito, nel 1892, da Ellis Island, sotto la diretta sorveglianza delle autorità federali.

Il piccolo porto di Ellis Island non poteva ospitare navi di grandi dimensioni, pertanto i piroscafi si fermavano presso l’isoletta di Lower Bay, nel porto di New York. Qui i passeggeri di prima e di seconda classe e i cittadini americani passavano una sommaria visita medica, poi erano liberi di sbarcare, mentre gli emigranti poveri (che viaggiavano in terza classe) erano caricati su chiatte e condotti a Ellis Island.

In una zona enorme, denominata Registry Room, essi attendevano il loro turno disposti in lunghe file separate da transenne. Seguiva poi un’accurata visita medica, per individuare eventuali soggetti malati ed eventualmente impedire loro l’ingresso nel paese. Particolare attenzione era posta a individuare le malattie agli occhi, mediante una visita oculistica, in cui l’esaminatore rivoltava le palpebre dell’immigrato alla ricerca di eventuali sintomi di tracoma, un’infezione della congiuntiva e della cornea.

I soggetti giudicati non del tutto sani venivano trattenuti per ulteriori accertamenti e nei casi più gravi essi sarebbe stati respinti e rimandati in patria. Le malattie giudicate guaribili, invece, venivano trattate direttamente nell’ospedale di Ellis Island. Negli anni in cui l’immigrazione fu più consistente furono esaminate fino a 5000 persone al giorno. Tra coloro che si videro vietato il visto d’ingresso furono molti i casi di suicidio.

Contrasti e discriminazioni

Per tutto l’Ottocento, New York (in particolare l’isola di Manhattan) fu sovraffollata e caratterizzata da un impressionante degrado urbanistico. In genere, le famiglie di immigrati più povere vivevano ammassate in alloggi fatiscenti, concessi in affitto dagli speculatori a prezzi astronomici. I diversi gruppi di immigrati costituirono vere e proprie isole urbane omogenee, abitate esclusivamente da Irlandesi, Italiani, Ebrei, ecc.

Non appena un gruppo nazionale riusciva a salire un gradino nella scala sociale, l’insieme degli individui lasciava il quartiere più povero e malfamato, per trasferirsi in blocco in un’altra area. Le attività più scadenti erano subito prese d’assalto dall’ondata di nuovi arrivati, che insieme ai lavori “ereditavano” anche l’area urbana dove risiedere.

Gli imprenditori americani spesso contrapponevano gli uni agli altri i diversi gruppi di emigranti. Tra di essi si verificarono così, di volta in volta, durissimi scontri che, nell’arco di breve tempo, potevano sfociare in alleanze precarie e volubili, di fronte a un nuovo comune avversario che mettesse in crisi i nuovi equilibri.

Gli Irlandesi per primi migliorarono la loro collocazione sociale, da un lato grazie alla conoscenza della lingua inglese, che li facilitava, dall’altro perché la nuova ondata di immigrati giunta a Ellis Island a partire dal 1890 sembrava a molti pericolosa per la società americana. Nell’arco di pochi decenni, ad esempio, gli Irlandesi riuscirono a monopolizzare gli incarichi di polizia a New York e in varie altre città.

Gli Italiani erano disprezzati dagli Irlandesi e ancor più dagli americani WASP (bianchi, anglosassoni e protestanti), soprattutto nelle regioni più meridionali, fortemente razziste. Tra il 1880 e il 1930, sono documentati almeno 3943 linciaggi, cioè esecuzioni sommarie, compiute da una folla inferocita contro un individuo ritenuto di razza inferiore. Nella grande maggioranza dei casi (3220) si trattò di uccisioni di neri. Gli altri 723 furono perpetrati contro bianchi immigrati, molti dei quali italiani.

Il dibattito sulla limitazione dell’immigrazione

EllisNel 1894 fu fondata la Lega per la restrizione dell’immigrazione, finalizzata a proteggere gli USA dalla “feccia” che da tutta l’Europa si stava riversando su Ellis Island. I brillanti professori statunitensi di scienze sociali che la promossero erano convinti che la razza fosse il principio di base che provocava l’ascesa o il declino dei popoli e delle civiltà. Ai loro occhi i neri, gli Ebrei e gli Italiani erano esseri inferiori: il loro stesso aspetto fisico li bollava come individui animaleschi e pericolosi. Il loro illimitato ingresso avrebbe provocato il rapido declino della giovane nazione americana.

Tuttavia i primi tentativi di introdurre una legislazione fortemente restrittiva fallirono, perché gli Stati Uniti avevano bisogno della manodopera degli immigrati. Solo negli anni ’20 la legislazione statunitense divenne più restrittiva. Nel 1924 fu approvata una legge che limitava drasticamente l’ingresso negli Stati Uniti di tutti coloro che erano considerati capaci di mettere in discussione la sanità della nazione e del suo popolo.

A inizio secolo si diffuse anche una crescente consapevolezza della brutalità con cui la società americana accoglieva e trattava gli immigrati. Nel 1906 fu pubblicato La giungla, in cui il giornalista Upton Sinclair denunciava lo sfruttamento dei lavoratori impegnati a Chicago nell’industria delle carni in scatola. Nel 1917 uscì L’immigrato e la comunità, di Grace Abbott, che denunciava soprattutto gli abusi di cui erano vittime le migranti nubili e sole approdate a Ellis Island e le truffe e le ruberie che moltissimi immigrati avevano subito.

Migrazioni e criminalità nella storia della Criminologia.

Ellis

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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